Un “fregio” all’Attico

di - 8 Febbraio 2018
Difficile contenere la storia della Galleria L’Attico (una vicenda inaugurata da Bruno Sargentini nel 1957 e a più riprese reinventata dal figlio Fabio a partire dal 1966 ad oggi) in una singola stanza, per quanto grande possa essere il Salone Centrale della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma.
Difficile anche per chi voglia evadere da criteri tradizionali e scientifici di presentazione, come avvenuto nelle mostre che in quello stesso spazio museale hanno visto la luce tra 2016 e 2017: The lasting. L’intervallo e la durata e 1968. È solo un inizio. Allestimenti inevitabilmente occasionati dalle condizioni espositive, ma in fondo come tanti e appunto occasionali.
Scorribanda no, è un’altra cosa. È un’invenzione che teatralizza in una sorta di fregio continuo e serrato circa quaranta dipinti e due sculture nel mezzo. Un allestimento che dimostra come forzare e forse negare i criteri di esposizione museali non vuol dire soltanto mischiare le carte con disposizioni più o meno assonanti o dissonanti, ma essenzialmente reimpostare le regole e le fondamenta, il modo stesso di vedere.
Basta osservare quanto accade nella mostra della collezione permanente intitolata Time is out of joint ovvero Il tempo è fuori dei cardini), dove non cambia la struttura espositiva, pur essendo proposti accostamenti del tutto originali.
Fabio Sargentini
Fabio Sargentini ha dalla sua una visionarietà che curatori, critici e conservatori di museo non hanno né ai quali è ovviamente richiesta, a meno che non si cimentino in allestimenti creativi.
Scorribanda è a suo modo una sorta di autobiografia familiare e personale allo stesso tempo, in cui pittori esposti dal padre e per lo più artisti esposti dal figlio sembrano darsi la mano, senza distinzioni di stili, età, tendenze, valori di primo o secondo o terzo ordine: ovviamente non tutte le opere e non tutti gli artisti sprigionano la stessa forza anche se in fondo si percepisce una sola emanazione d’energia provenire dalla lunga sequenza. Opere e artisti che hanno tutti fatto parte della storia dell’Attico, pur se non tutte le opere in mostra sono di proprietà della storica galleria, come nel caso di Pascali, Kounellis e Pistoletto, al contrario di quelle di Ontani, Tirelli, Pizzi Cannella, Nunzio, Mark Francis, Davenport, Limoni, Corsini, Di Stasio, Ragalzi, fino ad arrivare ai più giovani Montani, Padroni, Picozza, Capitano o Puxeddu.
La mostra inventata dalla regia di Sargentini (il termine “curata” a questo punto non è più funzionale né ci farebbe capire l’impresa) è tale non perché espone opere adottando o meno dei criteri associativi, bensì perché ha immaginato uno schema preciso in cui inserire le opere, scegliendo prima di tutto il tipo di narrazione e di retorica da adottare (romanzo, poesia, saggio o racconto, sta allo spettatore decidere) e poi il cosa narrare.
Scorribanda, vista della mostra, La Galleria Nazionale
Ci sembra che questo allestimento, proprio nell’epoca degli anallestimenti museali, possa far storia e insegnare qualcosa a chi vorrebbe vedere e comporre in modo radicalmente diverso le mostre, tanto più che Fabio Sargentini è stato uno dei primi in Italia a praticare visioni installative rivoluzionarie, in spazi come il Garage di Via Beccaria e con straordinari artisti tra anni Sessanta e Settanta  come Pascali, Kounellis, De Dominicis, Mattiacci, Merz, Pistoletto , tanto per citarne alcuni, inscenando opere prime di assoluta sperimentazione. Inutile starle a ricordare, bastino per tutte Il Mare con fulmine, 12 cavalli vivi e Lo Zodiaco e l’allagamento del 1976, le cui riproduzioni fotografiche rimangono a tutt’oggi icone riconosciute anche in ambito internazionale. In più la sua esperienza nel mondo del teatro di ricerca ha miscelato i giusti ingredienti per comporre un cocktail esplosivo con cui interpretare le superfici e lo spazio espositivo non come pareti e pavimenti, ma pagine bianche di un canovaccio o di un libro, o meglio ancora una pelle da far traspirare attraverso e grazie alle opere divenute attori.
Fabio Sargentini e i cavalli di Jannis Kounellis che entrano a L’Attico di via Beccaria, 1969
Che tutto ciò stia avvenendo in quella Galleria Nazionale che si è voluta programmaticamente reinventare assemblando variegati metodi allestitivi (tematici, formali, a libera scelta del visitatore, a misura di selfie…) contravvenendo ad ogni criterio cronologico, è operazione ancor più dirompente e forse di per sé provocatoria. Proprio dove il tempo è stato negato e messo fuori dei cardini, Scorribanda impone il proprio tempo (60 anni di una storia) attraverso il formato tradizionale di dipinti, allineati democraticamente nella loro anarchica irriducibilità e nel flusso continuo di grandi nomi ormai storicizzati o di nomi quasi sconosciuti, di promesse che si stanno facendo o che forse non si faranno più, riuscendo a dare in questo modo all’arte la sua libertà e dimostrando che si può deviare dalla cronologia senza cancellarla e rimanendo in linea con la storia, con una storia, qualunque essa sia.
Perfino nel riservato accostamento, dedicato al padre Bruno, di piccole tele di Mafai e Stradone (di proprietà di Fabio e delle due sorelle), perfino in quel piccolo altarino laico, affettuoso, privato, il titolo Tre fiori per Bruno (sono di fatto tre dipinti di fiori) diventa un esempio di allestimento emotivo e partecipato, capace di far dialogare le opere, di farle parlare, bisbigliare, confessarsi.
Seppure Fabio Sargentini abbia definito questo suo estremo allestimento (non perché ultimo ma perché più ambizioso e onnicomprensivo) un’azione “piratesca” ed una “installazione”, a noi piace vederla più come un riavvolgimento pubblico e introspettivo della memoria (e quindi del tempo e della storia), un racconto dove le parole valgono più della loro sequenza sintattica e si fondono con la “stessa sostanza di cui son fatti i sogni”, per citare versi di chi come Shakespeare è stato spesso invocato sulla pedana del teatrino dell’Attico in Via del Paradiso.
Marco Tonelli

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