Ha inaugurato lo scorso 13 settembre, negli spazi di Villa Manin a Passariano, “Man Ray”, a cura di Guido Cosmis e Antonio Giusa (fino all’11 gennaio). In mostra, gli oltre 300 pezzi fra fotografie, dipinti, oggetti, film e filmati, mettono in luce la versatilità di uno dei più importanti artisti del Novecento, riconosciuto soprattutto per le sue sperimentazioni in fotografia. Ma ciò che ne esce da questo esaustivo percorso, dove si ha l’impressione di sfogliare l’album di un’intera esistenza, è l’impossibilità di inglobarlo entro qualsiasi definizione e catalogazione. Difficoltà nella quale si incorre quando si ha a che fare con personalità dirompenti, che spesso possono apparire anche incoerenti, ma che in realtà non lo sono mai. Figure rare nel mondo dell’arte del nostro tempo, popolato più da ragionieri che calcolano ed eseguono a comando, che da artisti che hanno la forza di perseguire con determinazione gli impeti interiori. L’artista è tale se ha il coraggio di dire e fare quello che altri non oserebbero mai. La capacità di manipolare, di reinterpretare le cose che vede e sente. E, di conseguenza, l’incapacità, da parte di chi guarda, di capire fino in fondo. Di intuire senza mai capire.
Man Ray, come altri autori del suo tempo è stato questo e molto altro. E lo dimostrano i suoi rayogrammi, le solarizzazioni, i cliché verre, gli oggetti d’affezione. Le aerografie, che gli davano la sensazione di dipingere con il cervello. Lo dimostrano la tensione e il mistero che, a distanza di anni, sprigionano ancora i lavori in mostra. Non si può non percepirne la coerenza nell’eclettismo, non vederne la traccia che ricerca in tutti i suoi lavori, il fascino per l’ombra delle cose. Tutte le tecniche sono interconnesse, tutti i divieti infranti. Si disciolgono anche i tentativi, da parte dei due curatori, di suddividere l’operato in sezioni, perché ogni elemento acquisisce un ritmo fluido.
Gli anni americani, lo sbarco a Parigi e la pittura, dove forti sono gli influssi cubisti, metafisici e certamente surrealisti ma dove ad emergere sono soprattutto i pezzi più distanti da questi echi. Spicca, quasi come un intruso, Donna che esegue uno schizzo al Ferrer Center del 1912, piccolo disegno di grande spontaneità e naturalezza, come pure Flying Dutchman, del 1920, in cui l’autore dipinge da una fotografia delle lenzuola che si asciugano abbandonandosi al vento come ballerine danzanti. In questa produzione meno conosciuta, si percepiscono, oltre alle fascinazioni per la sinuosità del corpo femminile, i vibratili rimandi musicali e la curiosità per l’ingranaggio e il segno, visibile già nelle foto scattate alle opere dell’amico Marcel Duchamp, al quale sono dedicate quasi due stanze. Rotorelief, Le Grande Verre, Élevage de poussière, Tonsure, fino a Chess Set, 32 scacchi in alluminio anodizzato del 1946, che testimoniano la grande passione che entrambi avevano per questo gioco. Non mancano poi i pezzi forti da Cadeau a L’Énigme d’Isidore Ducasse a Le Violin d’Ingres, allestito nella sala dedicata alle donne, sue muse ispiratrici. Kiki de Montparnasse, Nusch Eluard, Lee Miller, con le sue labbra che sorgono e poi tramontano, per lasciare spazio all’enigmaticità dello sguardo di Meret Oppenheim, in mostra anche con il breve video muto Poison, che investiga gli effetti che alcool e fumo hanno sull’uomo e sulla sua propensione verso il torpore e lo stordimento.
Si procede ancora nelle sale successive e poi al piano superiore con la moda europea e quella del Congo, dove a posare è Ady Fidelin, simbolo della bellezza esotica, oltre che sua compagna; con gli autoritratti e ancora i ritratti di donne, dalla Marchesa Casati, bloccata in un satanico flou che anticipa le successive solarizzazioni e rayogrammi, dove il corpo e l’oggetto si dissolvono sino a diventare delle ombre o talvolta seducente artificio.
Ciò che si evidenzia in questa mostra, oltre ad un erotismo raffinato presente pressoché in ogni lavoro, è la vitale importanza che ebbero per l’artista amici e amori. Di quanto fossero indispensabili per la creazione dell’opera il visto, il vissuto e il sognato o fantasticato. Non a caso le ultime due sale sono dedicate al voyerismo e sadismo e a Juliet, ultima moglie e compagna di vita, che attraverso un breve documentario racconta il ruolo importante che i sogni avevano per il marito.
Molti anche gli approfondimenti multimediali, i cui pannelli sono stati inseriti come vere e proprie videoinstallazioni che dialogano e si incastrano perfettamente con le opere tutt’attorno e con le gigantografie affisse come poster di alcune foto dell’autore. Non mancano le produzioni cinematografiche, la cui sezione è stata curata da Carlo Montanaro, grande conoscitore di Man Ray regista. Mentre le musiche, sempre ipnotiche e ricercate di Theo Teardo, attribuiscono ancora maggior fascino e tensione ai quattro film girati negli anni Venti e proiettati nel suggestivo salone della villa, illuminato solo dalle luci del lampadario settecentesco. Retour à la raison, Emak Bakia, Le Mysteres du Chateu du dé, ed Etoile de Mer, sono testimonianze di grande inventiva nell’uso della cinepresa oltre che dei capolavori della cinematografia surrealista. Una sezione cinema è stata infine riservata alla proiezione di Man Ray, profeta dell’avanguardia, film del ’97 di Mel Stuart, mentre durante il fine settimana, in sala convegni, sono previsti approfondimenti sulle correnti artistiche e sulla vita dell’artista, nonché tre concerti tributo all’autore e alle atmosfere dell’epoca, a numero chiuso.
Quella dedicata a Man Ray è davvero una rassegna completa e ben curata, in cui emergono le sfaccettature dell’animo umano, l’ambiguità della maschera, il simbolismo sessuale della macchina – tanto cara a Picabia – l’erotismo raffinato e soprattutto quel senso di stuzzicante mistero, oggi pressoché del tutto perduto.