La home page di Facebook scivola sullo schermo dello smartphone, intrecciando profili, parole, collegamenti. Sulla pagina del Madre è stata pubblicata una foto della retrospettiva su Fabio Mauri, appena inaugurata e a cura di Andrea Viliani e Laura Cherubini, che è anche membro dell’Archivio Mauri, ente con il quale il museo napoletano ha lavorato a stretto contatto per l’allestimento della mostra. Ruotando il cellulare in orizzontale, i contorni si allargano e la luminosità aumenta, l’immagine, che sembrava contratta in un’unica dimensione, si estende come una struttura solida e «The end», la scritta impressa in nero sul bianco ritaglio di tela rettangolare, suona ancora più programmatica. Leggere su uno schermo individuale, aperto a connessioni di ogni sorta, le parole con le quali Mauri sintetizzava il fine dei suoi Schermi, è un gioco vertiginoso, non solo linguistico e immediatamente percettivo ma dell’intuizione, qualcosa di simile a un trompe l’oeil barocco versione 2.0, mise en abyme ideologica. Il rituale collettivo dello sguardo si parcellizza nell’interazione tra i cristalli del display e le impronte digitali, una modalità tattile di osservare, legata alla stretta connessione tra soggetto e oggetto, messaggio e medium, che egli stesso aveva profetizzato.
Esaustiva e completa, pensata come piena immersione in una concezione del mondo, «Retrospettiva a Luce Solida si concentra sul metodo di lavoro di Fabio Mauri, per mettere in evidenza il significato pioneristico della sua attività», spiega Viliani. Mauri ricercava la dimensione e l’attimo nei quali il pensiero individuale entra in contatto con le idee collettive, una misura tutt’altro che astratta e in grado di incidere sugli eventi, orientandone i processi, creando la sensazione della storia. E, alla base di questa analisi, aveva riconosciuto la presenza parossistica dello schermo, televisione, cinema o palco teatrale, superficie di tensioni tra pubblico e privato, uno spazio in cui la rappresentazione non era neutrale e, per questo, incredibilmente affascinante, con le sue implicazioni sociali, politiche, tecnologiche, estetiche. In anni in cui ci si concentrava sull’azzeramento della visione, sull’istituzione di un universo di colori ideali, tendenti all’infinito e al vuoto, Mauri apriva strade orientate alla pienezza, al peso, alla responsabilità sociale, quotidiana, dell’osservare e del fare. Mauri considerava la pratica artistica come propaggine per mettere alla prova il suo impianto teorico e, di conseguenza, non nutrì molto interesse per le inclinazioni del sistema dell’arte, nonostante gli stretti rapporti con i maggiori intellettuali del tempo, come Edoardo Sanguineti, Renato Barilli e Umberto Eco. Ebbe ancor meno cura nei confronti delle rotte del mercato che, solo negli ultimi tempi, anche in seguito a una serie di retrospettive tra New York e Londra organizzate da Hauser & Wirth, ha scoperto le potenzialità economiche delle sue opere.
La retrospettiva napoletana si articola in più momenti, ordinati e distinguibili. Una prima sezione, allestita nella grande sala RePubblica al piano terra, è dedicata alla matrice spiccatamente politica e si apre con due opere maestose, Il cavallo di S.S. con finimenti in pelle ebrea e Il Muro Occidentale o del Pianto, presentata alle Biennali del 1993 e del 2015. La ritmata verticalità del muro di valigie, con riferimenti ai temi dell’esodo e della fuga, dalla shoah all’emigrazione, nasconde La Seduta del Gran Consiglio che, originariamente, faceva parte di Oscuramento, un progetto in tre fasi, tra la Galleria Cannaviello, il Museo delle Cere di Piazza S.S. Apostoli e lo studio della fotografa Elisabetta Catalano. Eppure, per Mauri, più interessante di ciò che si vede, decisamente sbilanciato verso la precisione, è il modo in cui si stabilisce ciò che dovrà essere visto, più appassionante della lettura della storia è la ricostruzione del meccanismo che la diffonde.
Proseguendo al terzo piano, si entra nel vivo di un percorso circolare come una cronologia conchiusa in se stessa, un laboratorio in cui il pensiero viene preso in esame per le modalità di trasmissione e distorsione, alle quali, di volta in volta, affida il proprio carico di senso. La dottrina di un regime dittatoriale, un cinegiornale di guerra, un filmino delle vacanze in famiglia, giocano un ruolo paritetico nella costituzione di una realtà edificata lungo la solida traccia lasciata nell’etere dal sovraffollamento plastico, scultoreo, dei segnali visivi. Disincantato e coerente, affascinato dalle scoperte sulla fisica quantistica di Max Planck e di Albert Einstein, lontano dell’idea positivista del folle volo verso cieli sconosciuti – cui pure dedicò un’installazione, Luna, presentata nel 1968 alla Galleria La Tartaruga e riproposta al Madre – aveva intuito la linea evolutiva del rapporto tra uomo e tecnologia, preconizzandone la completa ibridazione. Un movente post-umano giustifica tanto i 36 schermi bianchi di Perché un pensiero intossica una stanza?, opera capitale del 1972 che avrebbe meritato una sua autonomia nel percorso espositivo, quanto le proiezioni fatte sul suo corpo, Ricostruzione della memoria a percezione spenta del 1988, sul corpo di una modella, Senza Arte del 1975, e sui corpi dei registi, tra le quali è straordinaria, anche solo per il pathos, quella del Vangelo Secondo Matteo sul torso di Pier Paolo Pasolini, tenuta alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nel maggio del 1975 e rievocata al Madre con le bellissime fotografie scattate da Antonio Masotti. Ogni cosa, organica o inorganica, può essere intrisa di senso, parti del corpo, ritagli di tela, interi ambienti, diventano schermi di grandezza variabile e interconnessi, una fitta trama reticolare ordita da sovrapposizioni di materie e spazi, medium globale che assorbe identità e collettività, riflettendo inclinazioni degli umori e derive dell’ideologia. Videodrome, il capolavoro di David Cronenberg sarebbe uscito nel 1983, affrontando gli stessi temi anche se in termini decisamente più cyberpunk e apocalittici, dalla Chiesa Catodica alla Setta della Nuova Carne.
Mauri, però, non poneva antinomie, «il bene e il male parlano la stessa lingua». Così, si rivolgeva con un atteggiamento di curiosità verso qualcosa che doveva sentire imminente e splendente. Oggi, l’ibridazione tra persona e proiezione, tra occhio e schermo, è pienamente avvenuta e possiamo interpretare il codice di molte sue performance al di là dell’evidenza politica e storica, da Ideologia e Natura, del 1973, a Senza titolo, del 1992, passando per Europa bombardata, del 1978 ed eccezionalmente performata, in occasione del reenactment del Madre, dall’interprete originale, Danka Schröder. Il portato della sua ricerca si apre al contemporaneo proprio in questi momenti, quando anche la trama della pelle e dei vestiti, le onde sonore e la scia dei gesti, diventano schermo sul quale il mondo può proiettare le sue immagini, una struttura di solida carne per il virtuale. La fisicità dell’hic et nunc si ribalta in una realtà che non ha bisogno di protesi invadenti per essere aumentata, un ipertesto può essere letto ad alta voce, bastano le membra scoperte per disegnare i simboli e i traumi della lotta per una libertà oscena. Una serpeggiante seduzione bioetica e tecnologica avvolge l’identità ma senza pericolo di crisi di rigetto, sintesi di corpo fisico e spettro luminoso.
Mario Francesco Simeone