UN LUPO ALL’AUDITORIUM

di - 16 Ottobre 2008
Diciotto mesi fa, più o meno, Silvio Wolf (Milano, 1952) entrava in punta di piedi nell’edificio progettato da Marcello Piacentini nel 1950. “Un percorso molto complesso”, come lo definisce l’artista, che si è concluso con la realizzazione del site specific La Doppia Vita. Sette opere fotografiche collocate in due diversi ambienti dell’Auditorium Conciliazione a Roma: la Sala del Lucernario e la Sala del Coro. “Quello che appare qui fa parte dell’evidente, del verosimile, di ciò che già esiste”, spiega. Un lavoro in cui l’artista si è lasciato guidare dall’intuizione, lasciando ragionamenti ed elaborazioni analitiche a una fase successiva.
La fotografia è lo strumento per “rendere coscienti del visibile, utilizzando livelli che non sono narrativi, ma metaforici”. Wolf parla di un altrove che è quello catturato da elementi reiterati, in piena consonanza con l’esistente. I particolari del soffitto diventano allora elementi astratti, come le poltroncine delineano un “luogo impossibile e anche un po’ stellare”, mentre la cavea dell’Auditorium è l’epicentro della “sorta di osmosi tra pubblico e scena”.

Già nel titolo, La Doppia Vita, è sintetizzata la tua poetica, incentrata sulla metafora interno/esterno, sul senso fisico del limite. “È nel doppio che ci accoglie la vita”, scrivi nel testo poetico che accompagna l’opera…

Questo luogo è speciale, in quanto è di per se stesso una metafora dell’esterno. È un polmone gigantesco che si riempie e si vuota tutti i giorni, dove entra la creazione degli artisti ed entra un popolo che, dalle 21 alle 23, focalizza l’attenzione sul palcoscenico. Quando ho ricevuto la richiesta di committenza di interpretare quest’ambiente mi sono ispirato prima di tutto all’assenza. Mi piace vivere i luoghi pubblici in assenza del pubblico, come mi piace rendere il luogo protagonista e opera, non contenitore dell’altrui creazione. Questa sala non grande dove ci troviamo, quasi un piccolo acquario, è il luogo del doppio della grande sala. Mi sono fatto ispirare dall’architettura, dalla forma costruita del luogo, da piccoli particolari dei soffitti, dei pavimenti, dai frammenti dello spazio edificato e li ho riportati in questo spazio raddoppiandoli, moltiplicandoli in quello che ho concepito come sala di arresto, meditazione e ascolto. Mi piace pensare che, mentre nella grande sala la massa si rapporta con l’oggetto scenico e il concerto, qui l’individuo – attraverso l’opera – si rapporta con se stesso.

Questi lavori sono bidimensionali, ma rappresentano virtualmente la tridimensionalità dello spazio esterno…
La fotografia è sotto plexiglas, incapsulata tra plexiglas e alluminio, una tecnica che amo molto in situazioni protette come questa, visto che le opere sono installate permanentemente. Non mi piacciono le cornici. La cornice, per me, è il bianco della parete. C’è un bordo nero fotografico che, in qualche modo, cita un’idea di boccascena. Le opere sono pensate sulle misure delle fughe prospettiche delle aree che le inquadrano e sono leggermente staccate dalla parete.

I colori, particolarmente vibranti, hanno un valore simbolico?
Lo hanno fortemente. In questo mi aiuta la luce. Utilizzando la tecnica fotografica cerco di ricevere al massimo dall’esistente, sia otticamente che cromaticamente. A seconda delle pellicole, la luce reagisce in modo diverso. Questo verde e bianco, ad esempio, sono il risultato dell’irradiazione della luce fluorescente dei neon dei soffitti; il giallo delle luci a scarica del foyer; i rossi del rosso delle poltroncine… Cerco di basarmi sempre sull’esistente, la reinterpretazione avviene attraverso la specificità del linguaggio che adopero, in questo caso quello fotografico. Benché in questa sala non ci sia un intervento sonoro, sento che questo moltiplicarsi è una forma metaforica di rapporto con il suono. Il suono che vibra sulle superfici.

Nella reiterazione dei dettagli operi una manipolazione dell’immagine.
La manipolazione c’è sempre. Se qualcosa mi ha profondamente ispirato durante la mia formazione è stato lo studio dell’arte islamica. Un’arte straordinaria, non aniconica ma non rappresentativa nel senso tradizionale. È una figurazione combinatoria dove il simbolo si moltiplica per infinite variazioni fino a creare l’immagine, che però non è un’immagine come noi la consideriamo. Non è il volto o la figura umana, né il luogo. Ma è comunque un’idea di spazio, perchè si basa sull’idea del vuoto. Se c’è un luogo al mondo, poi, che mi ha segnato è la Cappella Palatina a Palermo, con le sue pareti realizzate dagli stessi artigiani, dove da una parte compaiono le figure del Vangelo, mentre nell’altra si vedono incredibili variazioni. Un’arte impropriamente chiamata decorativa, la cui forma rappresentativa usa codici combinatori completamente diversi dai nostri. È il segno che si fa immagine.

Quanto è importante il coinvolgimento dell’osservatore? Proietti in una dimensione di meraviglia, stupore…

Ritengo che l’opera, una volta compiuta, sia l’inizio di un processo. Ora che ho creato questa “cappella” a Roma, gli altri possono varcarne la soglia e viverla, senza bisogno della mia presenza. Il lavoro mi rappresenta pienamente. Però mi auguro che dia anche una visione differente dell’esistente, ovvero che chi visiti questa stanza voglia vedere anche il resto del teatro. Al momento questa situazione è molto privata, perché l’opera si può visitare solo in orario di spettacoli, ma so che Francesco Carducci ha in mente, proprio attraverso questo progetto, di aprire lo spazio a una sua visitazione in quanto monumento, luogo della città. Inoltre si è prefisso di non rendere l’Auditorium solo contenitore di eventi, ma di iniziare un rapporto vivo con le arti visive.

Si può parlare di “fotografia concettuale” in riferimento al tuo lavoro?
Si può, ma non è solo concettuale. “Concettuale” è una bella parola, abusata. Mi sembra incredibile che un pensiero non si esprima anche attraverso i concetti, ma non c’è concetto che possa reggere se l’opera non funziona. Credo che il lavoro si manifesti pienamente sul piano percettivo. Poi lo si può indagare attraverso concetti, metafore e il modo in cui ognuno risponde emozionalmente. I concetti vengono a posteriori.

Com’è avvenuto il passaggio dagli studi di filosofia e psicologia alla fotografia?
È stato l’atto d’arbitrio della mia vita. A un certo punto ho dovuto scegliere se proseguire gli studi umanistici o lasciarli ed entrare nel mondo delle arti visive. Ho fatto quella scelta perché non ero soddisfatto dello sbocco professionale che pensavo che mi avrebbe offerto lo studio della psicologia. Così mi trasferii in Inghilterra, dove ho iniziato questo mio cammino nel mondo dell’arte attraverso la fotografia. A posteriori posso dire che alcuni elementi degli studi di filosofia e, soprattutto, di psicologia mi hanno poi accompagnato nel mio lavoro. Ma di questo mi sono accorto molto più tardi. Soprattutto gli studi di psicologia della percezione. Per me, allora, il mondo dell’arte era veramente alieno, perché venivo da una struttura mentale completamente diversa, dove il dominio non era l’immagine ma la parola.

Perché proprio la fotografia a Londra?
Molto banalmente perché non ho mai dipinto. Coltivavo la passione per la fotografia e ne ho cercato l’accesso, trovandolo con enorme difficoltà, nel mondo dell’arte attraverso l’uso del linguaggio fotografico. Non ho mai voluto connotarmi né frequentare il mondo della fotografia tout court, ma molto di più quello delle arti visive come artista che usa il mezzo fotografico. Londra, a metà degli anni ‘70, era un luogo molto stimolante sia per quanto riguarda le arti visive che la musica.

Ci sono autori – fotografi o artisti – a cui ti sei ispirato durante il suo percorso? Talvolta il tuo nome è associato a quello di Franco Vaccari.
Considero Franco Vaccari un maestro. Ho conosciuto il suo lavoro quando ero giovanissimo e nel panorama dell’arte italiana mi sembrava un raggio di luce. Il suo è un pensiero analitico scientifico applicato all’uso del linguaggio fotografico. Quando studiavo fotografia mi interessava molto anche il lavoro dell’olandese Jan Dibbets, autore di fotografia concettuale. Mi hanno sempre interessato la pittura, la scultura, le arti performative, il suono, la musica, la minimal art in campo musicale… Sono un grande ascoltatore di Bach, poi, e trovo una disciplina fondamentale per lo spirito sia l’arte della fuga che tutto il lavoro sul contrappunto e sulle variazioni.

Progetti futuri?
Sto lavorando a tre progetti, di cui due riguardano la dimensione dell’invisibile, che oramai per me è diventata predominante. Sono convinto, infatti, che la fotografia agisca sull’apparente attraverso la luce riflessa dalle superfici visibili. Questo è il suo limite, questa la sua potenza. Il mio intendimento è agire sul visibile per poter alludere all’invisibile. Sto anche riunendo le idee per scrivere due libri. Uno lo vorrei intitolare L’Albero della fotografia: un libro dedicato alla fotografia come forma d’insegnamento sul piano esperienziale. Nell’altro, invece, vorrei affrontare la fotografia più a livello spirituale. Da un po’ di tempo, infatti, mi stanno interessando molto alcune questioni legate alla mistica ebraica. Soprattutto alle interpretazioni dei testi, che sto vivendo in parallelo rispetto al mio rapporto con il reale visibile mediante lo strumento che coniuga tempo e spazio, ovvero la luce. Io scrivo utilizzando la luce visibile, che non è così diversa dalla luce attraverso la quale abbiamo un’esperienza retinica della vita, ma la messa in codice è completamente diversa. La cosa che si equivoca del fotografico è che la verosimiglianza fa pensare che la cosa esiste, ma in realtà si sta guardando l’immagine piatta, bidimensionale e virtuale che è una lontana nipote del reale fotografato, perché c’è di mezzo l’elemento dell’esperienza dell’individuo, che è stato medium di questo passaggio. La fotografia è la più astratta tra le arti, ma paradossalmente anche la più verosimile.

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Personale a Milano

a cura di manuela de leonardis


Silvio Wolf – La Doppia Vita
Auditorium Conciliazione
Via della Conciliazione, 4 – 00193 Roma
Orario: durante gli spettacoli e su appuntamento
Info: tel. +39 0668801044; www.auditoriumconciliazione.it

[exibart]

Nata a Roma nel 1966, è storica e critica d’arte, giornalista e curatrice indipendente. Con Postcart ha pubblicato A tu per tu con i grandi fotografi - Vol. I (2011), A tu per tu con i grandi fotografi e videoartisti - Vol. II (2012); A tu per tu con gli artisti che usano la fotografia - Vol. III (2013); A tu per tu – Fotografi a confronto – Vol. IV (2017); Cake. La cultura del dessert tra tradizione Araba e Occidente (2013), progetto a sostegno di Bait al Karama Women Center, Nablus (Palestina). E’ autrice anche Taccuino Sannita. Ricette molisane degli anni Venti (ali&no, 2015) e Isernia. L’altra memoria – Dall’archivio privato della famiglia De Leonardis alla Biblioteca comunale “Michele Romano” (Volturnia, 2017).

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