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06
ottobre 2015
Un narratore vulnerabile di nome Tanaka
Progetti e iniziative
L’artista giapponese espone al Macro. Una bella mostra che fa pensare e diverte. Fatta di storie surreali eppure quotidiane. Raccontate con piglio dada
Disordine e casualità attraversano il lavoro di Koki Tanaka (Tochigi, Giappone, 1975, vive e lavora a Los Angeles), esattamente come vulnerabilità e ritmo. È l’”Artist of the Year” 2015 di Deutsche Bank a parlare in questi termini in occasione della mostra “A Vulnerable Narrator, Deferred Rhythms” (a cura di Britta Färber) che si snoda negli ambienti del Macro (fino al 15 novembre), secondo appuntamento dopo la KunstHalle di Berlino. Ogni mostra è, in realtà, a sé stante a partire dal titolo che per l’esposizione romana si arricchisce delle parole “deferred rhythms” (ritmi differiti), di un site specific sulla parete al primo piano e di We Found Something When We Lost Other Things, un lavoro realizzato proprio a Roma nel 2012 nell’ambito del programma di residenze Qwatz. Sette fotografie in bianco e nero documentano altrettante diverse zone della capitale (evidenziate nella mappa della città) in cui l’artista giapponese ha collocato una valigia. Ciascuna valigia era accompagnata da un biglietto in cui si chiedeva alla gente di riportare l’oggetto al Museo Pietro Canonica, sede del progetto The human factor. «Solo una valigia è tornata al museo, le altre sono semplicemente sparite», spiega Tanaka «Era un invito di partecipazione alla gente che veniva coinvolta in qualcosa legato agli oggetti smarriti. Io stesso all’epoca avevo odiato Roma, perché mi era stato rubato il portafoglio, ma ho avuto comunque fiducia nelle persone».
La memoria dell’azione è affidata alla fotografia che per lui è sempre investita del ruolo di documentazione: «In questo caso con il bianco e nero volevo enfatizzare la fotografia come documento d’archivio»
All’inizio del suo percorso artistico, come vediamo nel noto lavoro Everything Is Everything (realizzato a Taiwan e riproposto al Macro attraverso otto monitor, tanti quanti furono i giorni trascorsi in occasione della Taipei Biennal 2006), era focalizzato soprattutto sugli oggetti del quotidiano e sulle azioni che li coinvolgevano: «Nei supermarket o altri negozietti locali acquistai 300 oggetti differenti e li associai a reazioni spontanee. Non avevo nessun testo scritto, né alcuna pianificazione, ho semplicemente registrato le azioni spontanee connesse con oggetti, molti dei quali non sapevo neanche usare. È diventato quasi un testo scritto con gli oggetti stessi. Quanto alle immagini di cibi che appaiono a determinati intervalli, rappresentano un momento di pausa tra un’azione e l’altra».
Dal 2008-2009 l’interesse di Koki Tanaka (che dichiara suoi mentori Bruce Nauman e Vito Acconci) si è orientato verso i progetti partecipativi, come nel video A Piano Played by Five Pianists at Once, presentato anche in occasione della 55.Biennale d’Arte di Venezia dove l’artista rappresentava il Giappone. Attualmente è la storia – «che del resto è fatta dalla gente» – a rappresentare il focus di una ricerca in cui «non c’è una conclusione o una risposta, ma una conversazione». In Provisional Studies: Workshop #1 “1946-52 Occupation Era and 1970 Between Man and Matter”, realizzato con il supporto di Deutsche Bank e Parasophia per il Kyoto International Festival of Contemporary Culture 2015, che prevede azione, workshop, documentazione video e foto d’archivio, Tanaka si è soffermato sulla storia del vecchio Kyoto Municipal Museum of Art, inaugurato per indagare gli aspetti legati alla colonizzazione americana del Giappone. Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, l’esercito americano occupò il museo di facendone il suo quartier generale. «La sala principale fu trasformata in un campo da basket. Ho trovato alcune fotografie originali che ne documentano quest’uso, insieme ad altre che mostrano l’installazione di Christo che nel 1970 impacchettò con il tessuto il pavimento di quella stessa sala. Ho portato queste due diverse azioni all’interno del mio workshop che era una ricerca sull’occupazione militare americana e sul suo impatto sul mio Paese, tuttora presente in Giappone anche se quasi esclusivamente concentrata nell’isola di Okinawa. Guardo indietro al passato, certamente, ma c’è anche un collegamento al presente».
Un lavoro che, invece, riflette la cultura della California è Someone’s Junk Is Someone Else’s Treasure (2011), in cui l’artista ha collezionato un mucchio di foglie di palma che ha tentato di vendere al mercato delle pulci del Pasadena City College. «In California c’è molto vento che butta giù le foglie di palma. Se ne vedono ovunque per le strade, sono molto comuni proprio come altrove la neve. Con questo lavoro volevo analizzare i limiti del sistema di mercato. In un mercatino dell’usato si vende quello che a qualcuno serve, ma che per altri è spazzatura. Mi interessava questa situazione estrema del sistema. Alla fine sono stato cacciato dal mercatino, perché l’organizzatore non si sentiva a proprio agio nel vedermi vendere foglie secche di palma. C’era chi si chiedeva perché le stessi vendendo e, ad ogni modo, creava disappunto nella gente. Oltre al video, alle coperte che ho usato per trasportare le foglie e alcune foglie stesse, in mostra ci sono due disegni a matita con cui ho riprodotto due foto d’archivio, uno rappresenta David Hammons mentre vende palle di neve per le strade di New York nel 1993, nell’altro un artista giapponese che vende pietre. In qualche modo le foglie di palma si trovano a metà tra la neve e le pietre, perché hanno bisogno di essere spazzate via, ma rimangono a terra come le pietre, non spariscono come la neve. Anche geograficamente Los Angeles, dove vivo da qualche anno, è a metà strada tra New York e Tokyo. La mia stessa situazione personale è analoga»
Ma la mostra “A Vulnerable Narrator, Deferred Rhythms” non è concepita secondo un percorso cronologico dagli inizi della carriera al presente, bensì sulla relazione tra azione e pensiero, sul fluire delle idee e su come queste si sviluppano per confluire nuovamente nel mondo esterno.
«Siamo nel mezzo di qualcosa un po’ confuso, dove si possono vedere disegni, documentazioni delle azioni e diversi testi. L’idea è quella di ricreare una confusione che appartiene, con cui è strutturata la nostra vita di ogni giorno. Considero questa mostra più come una continuazione di quella di Berlino. Il narratore vulnerabile a cui fa riferimento il titolo è, in un certo senso, uno speaker debole. Una persona un po’ insicura. Ognuno di noi vorrebbe essere forte, ma internamente siamo tutti insicuri. Così ho pensato di usare la vulnerabilità come punto di partenza per guardare le cose. In questo senso la vulnerabilità è connessa con la confusione, aspetti complementari della realtà. Allo stesso tempo se si ha l’onestà di accettare questi limiti ci si sente più forti. Il narratore vulnerabile è in ognuno di noi, ma allo stesso tempo sono io, i partecipanti all’azione e anche il pubblico stesso».
Manuela De Leonardis
Foto in alto e in home page di Manuela De Leonardis