A quasi 120 anni dalla nascita, vige ormai nei confronti di Duchamp quella forma di rispetto che si addice ai “grandi vecchi”. Gli anatemi, invece, si sono riversati sugli “eredi” della frattura gigantesca e infinitamente produttiva apertasi con la moltiplicazione delle occorrenze artistiche che Duchamp ha ispirato grazie all’uso di materiali estranei all’arte e alla costruzione di una nuova spazialità, nei ready-mades, nel Grande Vetro e in Etant donnés. La ricezione da parte di quegli artisti regardeurs che ne hanno colto l’importanza ha trasformato il linguaggio duchampiano in possibilità espressive fino ad oggi pressoché illimitate. Una “reciprocità”, per usare un’espressione dell’artista, coltivata dallo stesso Duchamp nei confronti di Leonardo da Vinci, Cranach, Rembrandt, Böcklin, Ingres, Courbet, etc.
Ne è un esempio l’ultimo episodio parigino legato all’affaire Paul McCarthy: la scultura gonfiabile temporaneamente eretta a Place Vendôme è stata immancabilmente paragonata all’orinatoio/Fountain di Duchamp. Nel contempo, la Chocolate Factory presentata dall’artista californiano all’Hôtel de la Monnaie intrattiene anch’essa un dialogo proficuo con Duchamp: al Pompidou sono appese sullo stesso muro tre versioni della Broyeuse de chocolat di Marcel, diversamente dipinte ad olio. La stessa Macinatrice campa nel Grande Vetro. In questo senso non c’è dicotomia fra il Duchamp pittore e Richard Mutt/Rrose Sélavy, suoi pseudonimi, inventori di un vocabolario artistico nuovo. Allo stesso modo, sussistono nella Mariée… tracce del sapere pittorico, per esempio qualcosa del Cubismo, nella forma essenziale e geometrizzata dei nove stampi maschili.
Attorno alla ricezione della mostra, malgrado numerosi apprezzamenti positivi, i regardeurs si dividono in tre gruppi: quelli che considerano che con Duchamp l’arte è morta, ma si compiacciono che il suo apprendistato da pittore riscatti l’artista dal ruolo di distruttore. Alcuni invece collocano gli anni 1905-1912 in una fase pre-duchampiana e giudicano la mostra un tradimento dell’opera di Marcel inventore dei readymade. Altri, infine, vedono in Duchamp un fuori classe (J.Clair), che deve tuttavia rimanere senza eredi pena il declassamento dell’arte. Ora, anziché tacciare la frattura linguistica dell’avanguardia di annientatrice dell’arte, perché non riconoscere quanto essa sia tuttora fertile per la conoscenza del mondo contemporaneo?
Inoltre, c’è chi pensa veramente che Duchamp volesse rinunciare a tutto lo scibile trasmesso dalla pittura e dalla storia dell’arte: artisti, tecniche, iconografie, pensiero figurativo, colore, forma, imagerie popolare, illustrazioni, cultura materiale e scientifica, etc? Con il Nudo che scende le scale, Duchamp traduce in pittura un’innovazione tecnica d’avanguardia: la cronofotografia che riproduce il movimento. Ricco è anche il bagaglio iconologico, religioso e mitologico, dall’assunzione della Vergine della Mariée mise à nu par ses célibaitaires, même (Calvesi) alla storia di Atteone di Etant donnés (Paz).
Osservare alcuni aspetti della pittura duchampiana consente una maggiore comprensione dell’intera opera. Quindi, ben venga una mostra, “Marcel Duchmap. La peinture même” (a cura di Cécile Debray, fino al 5 gennaio) in grado di esplicare gli inizi della carriera dell’artista che, come tutti gli esordienti, attraversa una pluralità di stili contemporanei quali quelli documentati in mostra: Espressionismo, cubismo, futurismo, fino all’Astratismo assimilato ad un punto d’arrivo dell’essenzialità dell’arte, compresenti con la modernità dell’Impressionismo e la devianza intrigante del Simbolismo. Trasformare il linguaggio artistico non significa rinunciare all’antica ricchezza culturale veicolata dalla pittura. Questo è il senso della trilogia di With my tongue in my cheek (1959), autoritratto silenzioso, custodito al Pompidou, assente dalla mostra, ed è il senso dei disegni e delle incisioni dell’ultimo periodo, esposti invece nella mostra, probabile risposta al rumore invadente provocato dai ready-mades nella seconda metà del XX° secolo.
Il legame tra la pittura e i ready-mades non è esplicitamente indagato sebbene la loro presenza fisica scandisca l’intero spazio dell’esposizione. In un ipotetico progetto si potrebbe dimostrare che i ready-mades appaiono in effetti come il manifestarsi di una storia allegorica dell’arte unita alle apparenze dissacratorie. Un esempio fra tutti di “nominalismo pittorico”, per usare un’espressione duchampiana, è la Ruota di bicicletta, dove le tre componenti principali, “rayons”(raggi), “roue”(ruota), selle (anticamente sgabello dello scultore) corrispondono oggettivamente all’anagramma di Raymond Roussel. Un ritratto quindi nel quale Duchamp, al posto del viso, raffigura il nome dello scrittore, mentre le lettere rimanenti, “m” e “d” sono, guarda caso, le iniziali di Marcel Duchamp.
E metafore ironiche della pittura sono anche Fresh widow (vedova allegra), trasformazione ironica di una French window, che evoca la famosa figura simbolica della pittura di Leon Battista Alberti. Con Duchamp la finestra/pittura, segnata dai pezzi di cuoio nero che sostituiscono i vetri, è diventata vedova, ma appunto allegra, come dice il titolo. La pittura vive la sua vedovanza dai tubi di colore in modo felice, e non si sente trascinata nella morte. Con Apolinère Enameled, Duchamp espone una lezione di pittura. Il presunto manifesto pubblicitario della ditta di vernici “Sapolin enamel” illustra una bambina intenta a tinteggiare diligentemente un letto. Sono evidenti tutti gli attributi allegorici della pittura: lo specchio, il pennello, la finestra, la tenda, i colori. In Why not sneeze?, l’effetto di finzione provocato dall’identificazione dei blocchetti di marmo con delle zollette di zucchero evoca un racconto riferito da Plinio nella Storia Naturale, dove l’uva dipinta viene scambiata per vera dagli uccelli. In una conversazione con Pierre Cabanne, l’artista riconosce all’opera una qualità “mitologica”.
Certamente Duchamp ha alimentato i malintesi. Non ama l’odore di terebentina della pittura ad olio che taccia di “retinica”, un neologismo che esprime una sorta di compiacimento per la vista. Egli smette di utilizzare alcune tecniche pittoriche come mezzo, ma non come procedimento, mantenendo anche costantemente pratiche figurative alla base della pittura, come le stampe e il disegno. In più occasioni egli si preoccupa di chiarire il proprio rapporto con la storia della pittura: “Volevo rimettere la pittura al servizio dello spirito. E la mia pittura fu, ovviamente, immediatamente considerata come “intellettuale”, “letteraria”. Il suo ut pictura poesis.
Nel 1912, ha un rilievo particolare il viaggio di Duchamp a Monaco di Baviera. A partire dagli anni Cinquanta l’artista lo ripeterà spesso. Ma quando decide di passare dalla tela al vetro? Stranamente questo interrogativo viene eluso. La parete di vetro evocata da Leonardo nel Trattato è un buon indizio, al quale tuttavia si potrebbe aggiungere un’altra ipotesi verosimile (Humbert). Sulla facciata sud della Neue Pinakothek, cara a Duchamp per la sua quadreria, era rappresentata l’allegoria della Glasmalerei con al centro del dipinto un Grande Vetro.
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conosciamo già il parere della humbert su duchamp, ma conviene ora descrivere il contenuto di questa mostra e forse affidarsi a quello di Duchamp sulla sua pittura, vedere a questo proposito l intervista di jean marie drot a Pasadena (youtube) . Ne sappiamo molto sul suo viaggio a Monaco, certo, ma le opere concepite li hanno precisi riferimenti come "Aéroplane" non quello della "Maison cubiste" ma..... maledetto Marcel !