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09
maggio 2014
Un pomeriggio a casa di Ettore Spalletti
Progetti e iniziative
L’idea di intervistare l’artista del silenzio, oggi al centro di un’attenzione anche un po’ rumorosa, con le tre mostre al Maxxi, la Gam di Torino e il Madre di Napoli, si rivela impossibile. Non è tanto che Spalletti abbia già detto tutto con le tre mostre e il catalogo, quanto che cerca un incontro, anche con chi non conosce (e questo è il caso). Il miracolo si avvera. Ecco il racconto di una visita davvero inusuale. E invidiabile
L’attesa.
A Cappelle sul Tavo tutto ha il chiarore dell’argento. L’ultima goccia di un lungo temporale si diverte a disegnare rivoli bizzarri sul vetro della mia auto: la primavera stenta a fiorire. Sono in anticipo per l’appuntamento con Ettore Spalletti – una mia abitudine – per cui attendo le cinque del pomeriggio rileggendo gli appunti. Per un attimo affondo lo sguardo nella pennellata di azzurro affacciata all’orizzonte: «quel colore atmosferico in cui siamo continuamente immersi – dice Spalletti – e che ci ricorda che il paesaggio si muove di continuo». Distillare l’emozione e prendere fiato, gestire la gioia di incontrare un grande artista italiano di cui ho visitato tre mostre: un unico progetto che ha insegnato la bellezza di Un giorno così bianco, così bianco. Al MAXXI di Roma, alla GAM di Torino e al MADRE di Napoli per parlare del colore che si fa poesia, mentre la luce scolpisce il ricordo che, mutevole come il sentimento, diventa rosa, e poi azzurro, e poi grigio, per tornare, infine, a parlare sempre del bianco, che «tutto assorbe e tutto restituisce».
L’incontro con Spalletti e il desiderio forte di trasformare le mie parole in strumento vivo, in grado di immortalare l’essenza di uno studio, di «una casa», di un’esistenza. Parole e immagini a confronto, per dare voce alla ricchezza di uno spazio in cui ogni giorno vive un paesaggio fatto di sculture e dipinti, di superfici che «non sai mai se muovono in un senso o nell’altro», quando la spinta verso l’interno o l’esterno delle linee cantano la timidezza o il volo verso un cielo che si apre al blu profondo.
L’incontro.
Gli stringo la mano, finalmente: una presa decisa e un sorriso accogliente, mentre i suoi occhi mi guardano e mi invitano ad entrare. «Vuoi un caffè?»: è la prima cosa che mi dice, lasciandomi sorpresa. È lui a prepararlo per me, con una linea di movimento che non conosce oscillazioni brusche, ma che sa di eleganza anche nella gestualità delle piccole cose quotidiane. La sua bocca tace, comprendo il senso del silenzio, i suoi occhi scrutano e mi osservano.
Sembra leggere i pensieri e, mentre respiro l’aroma di caffè, mi domando se abbia letto anche nei miei. Mi guardo intorno, subisco il senso dell’attesa e catturo ogni dettaglio di quella prima stanza da lavoro: parla di vita, di arte, di fogli e aspirazioni, di mete raggiunte, di sogni consumati; i telefoni non tacciono, ma invitano a nuove prospettive. Patrizia – sua moglie – si immerge subito nel vivace turbinio, mentre il maestro mi fa strada per accedere al suo studio.
Attimi in cui pensi a tutto e a niente, perché vuoi soltanto vivere quel momento che sai essere unico. Lo seguo e i suoi passi si muovono lenti, come lento è il tempo che scandisce la preparazione dell’impasto di gessi e pigmenti che lui realizza e stende, in attesa che la luce restituisca il valore di quei lunghi gesti e la ricercata proporzione fra linea e superficie.
La lentezza è il suo tempo, sia in battere che in levare, e la partitura che si definisce rimanda alle note pizzicate di un violino. L’adagio di Vivaldi e la finestra sul mare che parla dell’Adriatico.
La possibilità.
Pochi passi e lo spazio si apre in tutto il suo respiro: l’ampiezza dello studio infonde pace, la stessa che si percepisce quando si osserva il mare; la lucentezza delle opere alle pareti dialoga in armonia con le sculture che vivono nello spazio, «perché esse stesse hanno scelto la loro collocazione, il posto in cui stare».
Al centro di quella che Spalletti definisce la sua «casa», il bianco candido di alcune poltrone: mi siedo, convinta a questo punto di potergli porgere le mie domande. Ma la convinzione diventa aria in un istante. Una voce sussurrata, calda e sabbiata, sorride alla mia intenzione: «Non amo vedere quaderni. Oggi non vorrei rispondere a domande che riguardino ancora le mie mostre. Le risposte sono nel catalogo, è stato già detto tutto». Potrebbe sembrare un rifiuto, invece è una possibilità data a pochi. La bellezza di una pagina bianca: per me un foglio su cui scrivere, per Spalletti una superficie che «non sai se toccare o no»; ed è tutto lì il significato della sua poetica e di quei lavori che «non vanno toccati, poiché protetti da un velo di polvere di colore».
Si accende una sigaretta, e mi dice: «Segui la luce, e quando ti cattura, entraci dentro». La verità del momento, la stessa che risiede in ciascuno di noi e che si restituisce all’altro soltanto attraverso l’esperienza: il Maestro desidera che io faccia questo, perché nelle mie parole vorrà leggere l’autenticità dell’attimo, la profondità del mio osservare: «la cosa più importante sta nello sguardo e nella capacità di restituire un’emozione».
La “casa”.
Una luce bianca mi aveva colpito sin dal primo momento: ci entro dentro e ascolto il peso delle montagne. Una linea leggera che si fa grigia e poi azzurra e con timidezza declina il senso della sua arte, che rifugge l’iconografia rinascimentale: «io penso che tutto il mio lavoro sia figurativo. Il problema è quello che trovi dentro il colore: il luogo evocato e verso cui senti di volere andare». Il sentimento del paesaggio lo accompagna ogni giorno, così come la dialettica fra astrazione e figurazione. Ripenso per un attimo a La bella addormentata esposta a Napoli, all’importanza delle radici, alle lunghe passeggiate, alle sfumature del rosa con cui lui descrive l’incarnato. In tal senso, ogni volto potrebbe essere paragonato ad un fiore sui cui petali si racchiude l’essenza dei rossori e delle sorprese quotidiane, deificate in un’allusione di colore ogni volta differente, «perché l’incarnato – afferma – non ha fissità, ma cambia insieme all’umore del momento, che dà alla pelle un colore sempre diverso: pallido, gioioso, livido».
Mi muovo in uno spazio atemporale, in una dimensione di trascendenza: lui mi osserva, fuma ancora una sigaretta, rifugge la velocità che tutto divora. Nella sua casa si cammina fra colonne bianche, azzurre, grigie, e sai con certezza che esse non conoscono il senso della casualità, perché simboli di un’architettura esemplare che racconta la storia del nostro Paese. La bellezza di un’Italia che c’era e fa fatica a resistere.
Sfioro con gli occhi il preziosismo dell’alabastro – che lui considera un marmo diverso da tutti gli altri – la sua spiritualità nel gioco delle trasparenze; e poi l’onice, il senso dello spessore e della tattilità. Mi colpiscono alcune poltroncine con miniature incastonate che disegnano la sagoma di una casa – cellula primordiale – e poi una matita bianca, aguzza da ambo i lati, che suggerisce il senso della condivisione.
E come dimenticare la totale immersione nella fluidità del bianco: la stanza – una casa nella casa -, alle cui pareti le superfici si muovono nel loro candore e le cornici si rastremano verso l’esterno. San Francesco e Il Cantico delle Creature: nella bellezza di quel bianco ho ritrovato la sintesi di una natura benigna. Per un attimo ho chiuso gli occhi e, nello stringere i pugni, ho avuto la sensazione che certe cose possano durare per sempre: la luce, il colore, l’amore. La perfezione di Piero della Francesca e del Beato Angelico.
Il congedo.
Nel risedermi al suo fianco, tutto ha continuato a muoversi lentamente: il respiro, le braccia, i nostri pensieri, che si sono incontrati in lunghe riflessioni. L’emozione e la restituzione dell’esperienza.
Fra le domande che gli ho posto, ne cito una integralmente: «In un rapporto di dare e avere, come si può intendere l’arte?». Tende una mano verso il vuoto, simile a quella di un mendicante: «Ecco – mi dice – in questo gesto c’è l’essenza del tutto, il valore assoluto. Quando un uomo porge una mano verso l’altro, non sai mai se è in segno di accoglienza o di offerta. E nell’arte è anche così».
Una foto, la dedica autografa e il senso del dono. Ormai vicini all’ingresso, ci salutiamo, anche con Patrizia. Guardo la finestra alla ricerca del sole e non so perché ho pensato a Picasso e a quel verso letto qualche giorno prima: «una cimice di sole/ si mangia l’odore dell’ora che cade».
Salgo in auto e apro con gioia il catalogo: «Aprile 2014. In studio, per Alessandra. Ettore Spalletti».