Un presidente per la società dello spettacolo

di - 8 Ottobre 2012

Ci sono almeno due considerazioni da fare su “For President”, in mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo fino al 6 gennaio. La prima: questa è un’esposizione da vedere e fare vedere. Ditelo a tutti, persino a quell’amico che mette piede in una mostra una sola volta l’anno: che se la giochi ora, quell’unica volta, non lo rimpiangerà affatto. La seconda cosa da sapere è che sarebbe meglio non sapere nulla. Non leggete le recensioni né il catalogo e neppure questo articolo, prima di andarci. Se fosse possibile direi: andateci a vostra insaputa, a occhi chiusi, catapultatevi nello spazio espositivo senza preavvisarvi, trovatevi lì per caso senza sapere dove siete né perché. Perché il bombardamento mediatico di “For President”, progetto nato da un’idea di Mario Calabresi, direttore de La Stampa e curato da Francesco Bonami, non è un tema evocato dalle opere, ma un fatto, un assalto vero e proprio, e se fosse possibile aumentarne l’intensità sarebbe tutto di guadagnato. Sentenze, inni, dichiarazioni franano in un cumulo di parole, un magma rumoroso che investe lo spettatore (o meglio, l’elettore) sin dal suo ingresso in biglietteria. In questa mostra le elezioni presidenziali non sono un argomento attorno a cui il curatore ha snodato un discorso che le opere sviluppano: si tratta piuttosto di una (chiassosa) realtà tangibile, che l’arte (mai così contemporanea) popola.

L’intento documentaristico è rappresentato dalla collaborazione della Fondazione Sandretto con Magnum Photo e La Stampa, alla ricerca di «un modo diverso di costruire una mostra, intrecciando attualità e arte, creando un tessuto espositivo nuovo e affascinante». Dalla rassegna stampa di 144 anni di presidenti USA (prima saletta della mostra, che da sola vale l’ingresso) si passa alle opere d’arte, alle foto, ai video e agli spot, persino ai gadget elettorali, tra cui sorprende la collezione di spille di Luca Da Monte, capace di condensare e confrontare in poche vetrine la storia dell’estetica repubblicana e democratica dall’inizio del Novecento a oggi.

“For President” ha l’intento dichiarato di narrare «come il nostro interesse per gli USA sia cresciuto nell’ultimo secolo e mezzo», si legge nella presentazione, ma di fronte alle fotografie delle campagne elettorali, alle immagini di quelle mani che, per dirla con Mario Calabresi «si alzano verso il cielo in segno di forza o vittoria, si allungano per accarezzare bambini, abbracciare elettori, salutare, […] afferrare voti» lo spettatore non può che rivedere votazioni e presidenti a lui ben più vicini e noti, quelli di casa propria: l’estetica del candidato in corsa per le elezioni è oggi simile in tutto il mondo, e collima fino a confondersi con quella dello showman all’inseguimento dello share in Italia come negli USA.

Con le due fotografie di Marion Frost, cittadina americana ritratta nel salotto di casa sua, Jim Goldberg si inserisce in questo discorso. Il grandangolo descrive minuziosamente una realtà casalinga in cui pare di poter entrare per sentire l’odore di moquette, toccare la Madonnina poggiata sulla tv in radica, spegnere la luce del lampadario dimenticato acceso. Marion è in poltrona e incollata al monitor, con una tastiera tra le mani: sta partecipando al sondaggio istantaneo durante il dibattito presidenziale di George Bush contro Al Gore. L’elettore è uno spettatore, la preferenza è un televoto, che vale ora per i candidati politici ora per le reginette di bellezza.

Democrazy, video installazione di Francesco Vezzoli (Brescia, 1971), fa un passo oltre. Show business e campagne elettorali coincidono, attori e candidati si confondono, l’effetto di straniamento è assicurato. L’opera presenta due spot elettorali che mostrano lo stato del dibattito politico nelle società democratiche: due video di un solo minuto con protagonisti due ipotetici candidati alle presidenziali americane del 2008 (interpretati da Sharon Stone e Bernard-Henry Levy). I due programmi elettorali sono spettacolarizzati e ridotti a mere frasi ad effetto; la politica è diventata il trionfo dello spettacolo, e tra i due candidati non c’è differenza alcuna: entrambi utilizzano le stesse tecniche, si vendono allo stesso modo all’elettorato. Fotogenia, sicurezza, retorica vincono sui contenuti. Il messaggio in effetti è indecifrabile, perché oltre ad essere vuoto di significati è proiettato su quello dell’avversario, confondendosi, perdendosi.

La serie fotografica Smithsonian Freer Gallery di Ramak Fazel (Iran, 1965) riporta al centro il museo, uno spazio in cui trovare rifugio e disporsi informalmente, mescolandosi con le opere d’arte in attesa del discorso del presidente. Gli scatti risalgono al 20 gennaio 2009, durante le ore precedenti l’insediamento di Obama a Washington, e paiono anticipare ciò che succederà alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo il prossimo 6 novembre 2012, giorno dell’elezione del 45° presidente USA: per l’occasione lo spazio espositivo si trasformerà in una sala stampa dalla quale seguire i risultati dell’evento politico in diretta. L’attualità entra nel museo, che accoglie e offre opportunità.

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