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23
luglio 2019
Un sogno chiamato Kuwait
Progetti e iniziative
Giovani artisti dal Paese del Golfo a Venezia, per raccontare anche di una pace mediatica, presentando un nuovo polo museale che si promette essere da mille e una notte
di Irene Guida
Ha inaugurato il 14 giugno e terminerà a metà novembre, il progetto di presentazione al mondo del polo museale Sheik Abdullah Al Salem, intitolato a Abdullah III, figura di statista fondamentale per il Kuwait moderno, noto per le sue posizioni filo-islamiche ma che insieme con il trattato di pace con l’Inghilterra – mettendo fine al protettorato inglese nel 1961 – ha trasformato il Kuwait in una monarchia parlamentare, essendo il vero autore della visione politica che ispira l’attuale stato del Kuwait. Heart Of culture, Cuore della cultura, è il titolo dell’operazione.
Il polo, spazio di proporzioni ciclopiche, – una sede che si estende sulla baia del Golfo Persico per oltre centomila metri quadri e sviluppa una superficie totale di circa diciotto ettari – a Venezia è solo evocato da un video, realizzato con tecniche di produzione hollywoodiane che superano l’abilità di qualsiasi social media manager, esposto all’ingresso della Schola dei Tiraoro e Battioro. Per questo motivo, è riduttivo definire la piccola mostra a San Stae, allestita dai curatori Luca Berta e Francesca Giubilei, una collettiva di sei giovani artisti kuwaitiani. Il duo è riuscito a mantenere un tono di integrazione perfetta fra l’eterotopia del tappeto volante e il livello super locale veneziano, in una chiave esotico-minimale che rende l’esposizione particolarmente gradevole. Impresa non esattamente immediata e semplice, dato il fitto simbolismo che ogni segno grafico rivela, dalla fertilità del campo, alla prosperità e alla pace, che si sovrappone al non neutro paesaggio ornamentale veneziano. Impresa in cui evidentemente anche i designer arabi sono esperti, del nascondere i simboli nei segni.
Heart Of Culture – Cuore della Cultura, foto di James Houston
Che l’attenzione maniacale per la diffusione mediatica efficace sia alta, lo rivela l’altissimo numero di led accesi per l’inaugurazione in occasione dei discorsi ufficiali. Un vero e proprio set cinematografico allestito per l’occasione, con la luce a temperatura variabile decisa da un direttore della fotografia e ripresa da una troupe kuwaitiana gelosissima dei propri protagonisti, e la registrazione diffusa poche ore dopo su tutti i canali social e probabilmente sulle reti nazionali kuwaitiane. Con artisti gentilissimi e un po’ criptici, impegnati in una residenza artistica breve ma intensissima, – con un calendario fitto di incontri già decisi che non lascia nulla al caso – quasi chirurgica. Colpisce l’assoluta assenza ufficiale di ogni istituzione veneziana dedita alla formazione artistica. Appare solo il canale di VeniceArtFactory. Sicuramente le scelte curatoriali dipendono anche dalla direzione artistica del gigantesco museo che in fatto di mercato arabo conosce meglio di chiunque altro la quotazione e il gusto degli artisti da preferire e quindi da coinvolgere. In ideale continuità con Homo Faber, due trii di artisti che si succederanno in due fasi della mostra sono invitati a collaborare con altrettanti artisti – makers veneziani, i loro nomi sono Lorenzo Cimolin, Silvano Rubino, Veronica Green, insieme con la tessitura Bevilacqua.
Dunque se tutta l’operazione si chiama Heart Of Culture – Cuore della cultura, la collettiva si chiama In my Dreams I was in Kuwait, ispirata al titolo di un disegno quasi goyesco di medio formato in mostra, opera dell’artista-illustratrice Zahara Marwand. Un mare che è l’Oceano, associato per analogia al mare del Kuwait, luogo di nascita di una giovane professionista che ora vive a Sud sulle coste del continente americano. Così altre baie e altre coste si sovrappongono a un sogno non più infantile ma nemmeno surreale, ancora affettivo e caldo, pieno di promesse e di ricordi. Due mezze frasi compongono la diagonale del quadro, I promise – I’ll remember. Questa sospensione fra passato e futuro, fra minaccia e opportunità, aleggia come un fantasma in tutte le opere.
Heart Of Culture – Cuore della Cultura, foto di James Houston
Fuori dalla stanza blu dei disegni nel mezzanino, succede di avere una visione di insieme, con l’esposizione programmatica sovrapposta di un tessuto kuwaitiano e di uno veneziano, dei Bevilacqua. Al piano superiore sono ospitate le opere degli altri due artisti. Uno scrittore calligrafo, Mahamood Shaker, che fa dell’ambiguità fra segno, alfabeto, suono e pura immagine la sua cifra, a tratti elegante, a tratti inquietante e misteriosa. Unico uomo del trio, è anche l’unico nato e residente in Kuwait e unico a esprimersi anche con le parole, essendo scrittore. Al suo lavoro risponde una giovane artista residente in Kuwait, ma nata in Ucraina e londinese per formazione, Amani Althuwaini, che in una combinazione fra le cifre e i segni dei brand di moda e quelli della tradizione popolare e religiosa del suo paese, intesse un dialogo straniante, fatto di elementi ripetuti, come la geometria, il tratto grafico che si fa alternativamente disegno e alfabeto, esprimendo il lento procedere di una personalità in formazione, ma anche la chiarezza espressiva di chi è determinato a trovare una strada. Il tema non a caso è il matrimonio e il corredo, topos di tutte le culture mediterranee e mediorientali, declinato nelle forme del lusso da una parte, della rinuncia e del dubbio dall’altra. Come se il lusso del corredo fosse un pegno da pagare per un salto in un’altra dimensione di cui non si conosca più bene il senso.
Questo lavoro esprime bene e forse più degli altri la direzione di integrazione fra makers e artisti, fra design del prodotto e cura del linguaggio artistico che è la scelta curatoriale e la missione del museo.
Infine, ancora sul grande e labirintico museo, il polo è progettato da SSH Architects, è formato da sei sezioni, una dedicata agli ecosistemi umidi, l’altra all’astronomia, la terza al corpo umano, la quarta all’oceano, la quinta alla tradizione scientifica ispirata all’Islam, la sesta alle arti contemporanee. Il trait d’union con lo spazio della città è un giardino semi coperto, connesso e illuminato che ricorda una Alhambra tecnologica. Il Cuore della Cultura, in questo caso, è la rivendicazione del ruolo propulsore, negato ideologicamente in Occidente, della cultura islamica per lo sviluppo scientifico tout-court. Il riferimento è agli anni chiamati dell’Arabia Felix, in cui in Europa Aristotele era vietato, corrispondente per noi all’alto Medioevo, mentre in Medioriente gli Emiri gestivano la cultura e il commercio di tutto il pianeta tramandando quello che restava della cultura ellenizzante del Medioriente, prima delle guerre con l’impero Ottomano, prima che la coesistenza fra oriente ellenizzante, cristianesimo, ebraismo e Islam cadesse in un conflitto ancora irrisolto.
Heart Of Culture – Cuore della Cultura, foto di James Houston
Il direttore della comunicazione, Fahad Al Sharrah, in una lunga chiacchierata, ha tenuto a spiegare la funzione didattica di questo polo. In un paese in cui l’unico sogno di un ragazzino è svolgere un’attività finanziaria legata al commercio petrolifero, – e con un passato di guerre, viene da pensare, ma la parola guerra è fuori dal loro vocabolario – è importante, ha detto, proporre modelli alternativi per quando la risorsa determinante del petrolio sarà completamente sostituita da un’economia basata sulla conoscenza, dove sarà importante sapere programmare robot, svolgere un discorso basato sulle proprie origini ma essendo capaci di essere produttivi per tutti e vivere in pace e prosperità. In definitiva il museo è pensato per essere un luogo di formazione dove bambini, giovani, adulti e anziani, insieme, possano immaginare un futuro, dove l’identità non escluda l’apertura globale. Non è solo metaforica questa decisione, ma anche spaziale. L’area sorge infatti in quella che era un’area statale sotto la diretta supervisione della famiglia dell’Emiro, dunque è un luogo simbolico perché ogni abitante di Kuwait City via ha trascorso in parte la propria formazione. Una tradizione economica basata, prima del petrolio, sulla pesca, la raccolta e la lavorazione delle perle, indotto connesso alla formazione del colore porpora dei tessuti, simbolo di potere come nessun altro colore, accuratamente evitato nella mostra. L’Emirato, in questa attività di riparazione e di rilancio, riconosce una amicizia con Venezia, con il suo paesaggio idealmente identificato con un arcipelago di vetrai e tessitori. Il progetto è nel quadro del piano di sviluppo per il Kuwait fino al 2035 e questo ne è il primo atto.
La scelta di Venezia è per analogia. Al confine fra grandi stati, l’Iran, l’Iraq e gli Emirati Arabi, il Kuwait – questo stato grande come il Nord Est italiano e un po’ Jugoslavia del Medioriente – è costituito da una popolazione che vive in prevalenza in una megalopoli nel deserto, desidera pace per rimarginare la ferita della guerra del Golfo. Una pace anche mediatica, dato che l’immaginario televisivo mondiale, come ricordano i curatori, è stato segnato dalla prima guerra teletrasmessa di sempre. Il Kuwait sta proponendo una visione a lungo termine e una immagine globale.
Fahad Al Sharrah, prima di vestire in alta uniforme per la cerimonia, ha tenuto a dire che la partnership investe anche la città di Milano, con l’area design della Triennale.
Faremo pace con una economia della conoscenza che funziona? Speriamo sia una chiave utile, quella della conoscenza unita al lavoro che diventa subito manifattura, perché questo traspare nel sogno del Kuwait.
Inshallah, direbbero loro, a Dio piacendo, si direbbe da queste parti. Forse ammettere che a parte il nome delle divinità, desideriamo quasi le stesse cose, aiuterebbe, come sembrano dirci questi giovani artisti.
Irene Guida
Heart Of Culture – Cuore della Cultura
giugno – novembre 2019
Schola dell’Arte dei Tiraoro e Battioro
Campo San Stae
30135 Venezia