Confine atipico quello fra l’Italia e la Croazia. Perché i confini sono in realtà due. Per arrivare a Fiume (anche se ad essere politicamente corretti occorrerebbe chiamarla Rijeka) da Trieste è infatti inevitabile transitare dalla Slovenia. Ma se per coprire una distanza di poche decine di chilometri il tempo di percorrenza è inaudito, almeno ci si può deliziare con la vista mozzafiato del mare dalle colline innevate. Dunque, il transito da Trieste è quasi obbligatorio. E visto che uno dei curatori della Biennale Quadrilaterale di Rijeka è Giuliana Carbi, e uno degli artisti presenti alla rassegna è Alfredo Pirri, un passaggio dallo Studio Tommaseo vien naturale. Dove si troverà una mostra inserita nell’ambito del progetto Continental Breakfast, con la partecipazione, oltre a Pirri, di Etty Abergel e Miroslaw Balka. Dai vetri acuminati del primo, che disegnano inaspettati skyline, all’installazione dell’israeliana classe ‘60, che ha dato vita a una complessa struttura sospesa e diffusa sul pavimento della galleria, stratificazione di memorie da osservare con attenzione ai dettagli; e infine Balka, che ha fatto modificare gli spazi dello Studio per proiettare un video dal sonoro assordante, con 12 piatti che si infrangono su una candida parete, rilettura dell’epilogo di un noto pasto evangelico ma altresì ricordo di un legame fra Venezia Giulia e Germania nella persona di un ahimé efficientissimo SS.
Transitati dalle sunnominate frontiere, si giunge in quel di Fiume. Dove nel quadro della neonata Biennale Quadrilaterale (“erede” di una tradizione che risale al 1954, anno del primo Salon jugoslavo), si è svolto un incontro durato due giorni, durante i quali si sono confrontati docenti di filosofia sul tema del relativismo –soggetto e oggetto della mostra- nonché i redattori di riviste d’arte croate, slovene e ungheresi, oltre alla partecipazione dell’Italia con Exibart e il progetto Trieste Contemporanea. Nelle sale del primo piano del Mmsu, il Museo d’arte moderna e contemporanea diretto da Branko Franceschi, che ci ha anche presentato il progetto per la nuova sede, sono allestite le opere di una quindicina di artisti, invitati dai quattro curatori: Giuliana Carbi per l’italia, Franceschi per la Croazia, János Sugár per l’Ungheria e Igor Španjol per la Slovenia. Complessivamente, se gli ampi spazi del Museo non godono certo di una strutturazione atta ad articolare compiutamente la visione delle opere, va sottolineata da un lato la godibilità di una rassegna che ha coinvolto e reso sinergiche le energie di un’area alla quale guardare con interesse; e dall’altro non ha mancato di riservare alcune gradite sorprese. A cominciare dagli enormi disegni realizzati da Brigitte Brand su carta di quotidiani indiani, il cui alfabeto crea una texture che diviene da mero supporto a parte integrante del lavoro. Notevole l’installazione di Pirri a chiusura del percorso espositivo, con i consueti vetri a coprire il pavimento, sostenuti da blocchi di pietra locale e parte di un progetto che si svilupperò in altre sedi.
Intanto l’Iput, collettivo fondato da Tamás St.Auby nel 1968, presenta stampe di palazzi sventrati e inopinatamente “decorati” da icone d’ogni tipo, dalle playmate alle lattine Camp; ironia (amara), erede del conflitto che pare appena concluso, anche nella terrificante bara doppia presentata da Szilvia Reischl. E non pare che la temuta recrudescenza dell’integralismo religioso sia un pericolo reale, se solo si facesse affidamento alla visionarietà di un Kristian Kožul, che ha affisso alla parete un altare di perline e peluche, che meticcia maschere antigas e decorativismo indù, candele votive ortodosse e brilluccichìo eighties. Il tema dell’identità torna a farsi sentire con forza e angustia nell’opera video a tre canali di Sandra Sterle, dove le stellette della bandiera della Comunità Europea possono divenire un’aureola, ma altresì trasformarsi senza soluzione di continuità in una gabbia più o meno dorata. Identità e memoria tornano ancora nel progetto presentato dal gruppo Irwin, che ha ricostruito e fotografato alcune azioni del gruppo concettuale Oho, attivo negli anni ‘60-’70.
Certo la vitalità di Fiume non è paragonabile a quella di Lubiana. E tuttavia, lo sforzo di maggior razionalizzazione e attività messo in atto da Franceschi durante questo primo anno e mezzo di gestione del Museo ha dato buoni frutti. Negli stessi giorni, infatti, si poteva anche visitare una personale di Predag Todorović, a testimonianza di un interesse che permane per la scena locale. Ma soprattutto, l’impegno da parte delle istituzioni pubbliche è affiancato da una imparagonabile -almeno per l’Italia- frenesia e partecipazione degli stessi artisti. A colmare la lacuna di gallerie private ci pensano, in altri termini, i produttori dell’arte, con un circolo degli artisti che nulla a che vedere con gli stanchi salotti nostrani, frequentati da noiose carampane.
Tutt’al contrario, il Circolo è un vero e proprio club con arredamento di design low-cost, ottima birra e soprattutto frequentatissimo. E la programmazione è assai fitta. Nella serata del 19 gennaio, per esempio, una giovane curatrice e critica d’arte si è esibita in una performance-reading, coadiuvata da proiezioni e musica elettronica, discettando su Cage con indubbia presenza scenica (e una minore presa teorica, ma son dettagli). In inglese, va da sé, perché da qui si guarda al mondo e non all’angusto orticello di casa.
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