Una Documenta afasica

di - 11 Aprile 2017
“Mio nonno aveva costruito una casa, ma ad un certo punto, quando la speculazione edilizia si è fatta più famelica, è stata buttata giù e la sua famiglia è stata trasferita in un nuova e anonima area della città insieme a molte altre famiglie del vecchio quartiere di …(omissis). Anni fa ho deciso di raccogliere delle tracce della vita di mio nonno che è stato un grande socialista e che non avevo mai conosciuto. Tutto nasce da una lettera che ho ritrovato tra le carte di mia madre, quando anche lei è mancata. Mio nonno scriveva a un suo lontano cugino che era emigrato in Canada, raccontandogli di quell’esodo forzato e del dolore, lo smarrimento che ne erano seguiti. Allora sono andato a … (omissis), ho incontrato delle persone che erano miracolosamente rimaste ancora nel vecchio quartiere, mi hanno indicato la strada dove viveva mio nonno con la sua famiglia. Al posto della vecchia casa, ora c’è un palazzone di lusso, ma per me appena un po’ meno squallido di quello dove lui era andato a vivere. Per terra c’erano dei sassi, li ho raccolti. E c’era della polvere, ho raccolto anche quella. Poi ho incontrato i bambini del quartiere che oggi hanno l’età che aveva mia madre quando è andata via da … (omissis)”. Questo è quanto racconta Tizio Caio in video, mostrando la lettera (anzi leggendola, lunghissima: circa 10minuti di lettura in rumeno con i sottotitoli in inglese) e mostrando con una videocarrellata, anche questa lenta e lievemente sfocata, i sassi e la polvere che ha voluto donare alla vicina scuola elementare, frequentata dai bambini che ha conosciuto, come memoria di quel luogo scomparso.
Il noioso video di Tizio Caio potrebbe essere un lavoro di Documenta 14 presentato a Atene, per l’anteprima, accolta con grande favore e aspettative, di ciò che vedremo a Kassel a giugno e che dovrebbe essere la più importante, meno mediatica della Biennale di Venezia ma più autorevole, manifestazione d’arte contemporanea del mondo. E che invece non lo è stata, e che anzi ci ha deluso radicalmente.
Una boutade, cavarsela con un giochino alla “potevo farlo anch’io”? Senza dubbio (ogni tanto, però prendiamola anche un po’ a ridere, altrimenti la depressione galoppa). Ma il problema è che purtroppo nei giorni tra il 6 il 9 aprile, quando ad Atene è stata presentata la 14esima edizione di Documenta, di questo si è trattato. Lavori deboli, disgraziatamente strabici, rivolti al passato piuttosto che con le antenne e la sensibilità puntate sul presente. Un presente che, forse mai come in questo momento, appare particolarmente critico e che dovrebbe muovere lo sguardo e il fare degli artisti. E verso il quale il pensiero divergente dell’arte potrebbe (dovrebbe, mi azzardo a dire) pronunciarsi.
Ma il punto di questa infelice Documenta 14 – particolarmente mal riuscita specie se paragonata alla intensa dOCUMENTA 13 di cinque anni fa, curata da Carolyn Christoph-Bakargiev – non è tanto il lavoro dei singoli artisti, tra i quali, a parte qualche catechizzazione sul passato del nonno e del vecchio quartiere operaio trasformato in area per nuovi ricchi, ci sono invece diversi lavori convincenti: Hiwa K, Myriam Chan, Cecila Vicuña, Arseny Avraamov (morto nel 1944), Maria Lai (morta quattro anni fa) Roee Rosen, Synnove Persen, Artur Zmijewski, Agnes Denes e altri, è la latitanza totale del contesto in cui questi lavori sono inseriti e che dovrebbero dialogare tra loro e soprattutto con noi visitatori per dare corpo al progetto del curatore, Adam Szymczyk. Il risultato, anche quando si è di fronte a lavori buoni, è che questi appaiono accademici (se “ben fatti”) oppure (peggio) incomprensibili. O, meglio, comprensibili solo nella loro stretta lettura, ma che non rinviano a nulla oltre se stessi. Semplicemente perché non c’è niente cui rimandare.
Si tratta di un vuoto, che si avverte particolarmente profondo fino a creare una vertigine, specie se si considera lo statement forte di Adam Szymczyk: fare una Documenta che interroga il mondo, il capitalismo maturo e per tanti versi sciagurato che lo governa, le tensioni geopolitiche che lo attraversano, facendolo da un luogo simbolicamente connotato e forte di per sé, quale è Atene, la Grecia, Paese sorvegliato speciale dalla UE, attraversato da massicci flussi migratori e scelto da Szymczyk proprio per questo.
Nell’affollata conferenza stampa che ha inaugurato “Learning from Athens”, anticipazione greca del più complessivo “Parlamento dei corpi” (tema di questa Documenta) che, sebbene con qualche accento populistico, con l’impatto potente del vis-à-vis con cui il pubblico si specchiava nello staff curatoriale-artistico e viceversa, rimane l’opera più riuscita di questa Documenta, la promessa di fare un serio lavoro di scavo sul nostro presente accidentato, era molto forte. Ma ben presto ci si è resi conto che quelle premesse e promesse erano state disattese.
A cominciare dalla faticosa ricerca dei luoghi e degli artisti, faticosa per la stampa e i professionals, figuriamoci per il pubblico, fatto che presta il fianco a quella critica di autorefenzialità che spesso è rivolta all’arte contemporanea. Per dirne una: non è mai stata comunicata la lista completa degli artisti, neanche nel catalogo e di quelli presenti non è mai stato possibile sapere dove e quando fossero nati (ah, la Biennale di Gioni con quelle chiare e preziose didascalie!). Qualcuno ha addirittura sospettato che tra i tanti nomi sconosciuti, alcuni fossero inventati; più facile pensare a una disorganizzazione probabilmente voluta. Per sciocco snobismo? Mah. Forse, più per una malintesa idea di globalizzazione, per cui non ha più senso sapere a quale cultura appartiene l’artista e in quale epoca si colloca il suo lavoro. E Amen.
Ma non si tratta tanto dell’incapacità di Szymczyk, cosa di per sé comunque grave per il curatore di una edizione di Documenta – se fosse questo, si tratterebbe del fiasco di un singolo, ci dispiace, ma ce ne facciamo una ragione – quanto della vacuità di quello che oggi viene definito progetto curatoriale, che spesso oscilla in una pericolosa distanza tra statement e opere, spesso riempita da un velleitarismo che sempre meno, però, sembra essere un problema.
Emblematica è stata la corsa dei cavalli domenica mattina sotto l’Acropoli, che simulava una processione panateniese del 5° secolo avanti Cristo, e che si è conclusa davanti al Parlamento, dando così inizio a Documenta 14. La corsa però era anche la prima tappa dei 3mila chilometri (tanto distano Kassel e Atene) di The transit of Hermes, opera dell’artista scozzese Ross Birrell che intende ripercorrere la rotta balcanica dei migranti in fuga dai teatri di guerra verso la Germania. Ma la pesante ferita di un cavallo, che non è riuscito neanche a raggiungere il Parlamento greco, oltre ad essere una scena piuttosto raccapricciante, ha paralizzato per qualche ora il centro di Atene.  
Immagine, questa sì, tristemente simbolica. Di una crisi dell’arte, che oggi appare divisa e bloccata tra processi di finanziarizzazione da un lato e una malintesa concettualizzazione dall’altro, in nome della quale tutto è possibile, o quasi. Eccetto la capacità di parlare del presente e di farlo con un punto di vista forte.
Adriana Polveroni

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  • Questa Documenta, come la precedenti ultime tre edizioni, si perdono nella preparazione di macchinose riflessioni scimmiottando la notevole X che fu innovativa e che ora è diventata una prassi inutile, condivido la tristezza percepita dalle opere prive di presente e soprattutto capaci di essere consapevoli dei grandi cambianti attuali e prossimi, chissà forse a Kassel...

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