15 luglio 2019

Un’antologica da manuale

 
La mostra di Pier Paolo Calzolari al MADRE di Napoli traccia una parabola raffinata sulla carriera dell’artista, e del rapporto con la sua amante: la pittura

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Uno dei compiti dei nostri musei d’arte contemporanea dovrebbe essere quello di proporre antologiche o retrospettive di artisti italiani con un taglio curatoriale scientifico, ma purtroppo questo compito è troppo spesso disatteso in favore di artisti stranieri, quasi che occuparsi degli italiani costituisca una diminutio culturale. 
A maggior ragione merita attenzione la mostra di Pier Paolo Calzolari “Painting as a butterfly”, aperta fino al 30 settembre al Madre di Napoli. Curata da Andrea Viliani e Achille Bonito Oliva, riunisce circa 70 opere, eseguite da Calzolari dal 1965 ad oggi, seguendo il filo rosso della pittura, una pratica che ha accompagnato l’intera carriera dell’artista. «La pittura è sempre stata per me soprattutto un’amante: con essa ho un legame che nasce da una fascinazione dei sensi e, allo stesso tempo, dalla perdita dei sensi» dichiara Calzolari. 
Un’attrazione fatale che comincia fin da giovane a Venezia, quando Pier Paolo osserva mosaici bizantini e teleri rinascimentali. Sulla laguna scopre anche la Pop Art, con la vittoria di Robert Rauschenberg alla Biennale del 1964: la interiorizza ma la sua ricerca si muoverà in un’altra direzione, come dimostrano i primi dipinti presenti in mostra, Prolegomeni per una definizione dell’atteggiamento (1965) e Quadro per Ginestra (1966).
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Pier Paolo Calzolari, Senza titolo, 2014-2015 Collezione privata Lisbona Foto © Michele Alberto Sereni
Già con Senza titolo (1966) si fa strada la dimensione minimalista e poetica che avvicina Calzolari alla corrente dell’Arte Povera, con un linguaggio che prevede l’uso di materiali necessari ad elaborare un cromatismo assoluto, attraverso la produzione del ghiaccio e del sale per ottenere un bianco perfetto. 
Molte opere esposte nelle prime sale sono autentici capolavori: in Senza titolo (1965) compare una foglia di tabacco che ritroviamo anche in Lago nel cuore (Lanciforme) (1968), mentre Senza titolo (lasciare il posto) (1972) rappresenta il lavoro più emblematico di questo periodo, sia per i riferimenti alla pittura bizantina, con la tela blu oltremare che fa da sfondo all’opera, che per la presenza di oggetti di matrice “poverista” come una brocca piena d’acqua, un uovo, un piano di piombo e un motore ghiacciante. Un’opera emblematica per la capacità dell’artista di sintetizzare in un unico discorso suggestioni diverse, combinando le componenti concettuali e performative con la dimensione classica della pittura, declinata della natura minimalista del monocromo. Questa modalità diventa protagonista nelle opere del decennio successivo, ed in particolare nel ciclo di opere legate ai colori blu e giallo, come Monocromo blu (1979) e Finestra (1978), caratterizzate da una spazialità forte e avvolgente, quando Calzolari voleva ridare alla pittura «Corpo e sangue, in un momento storico in cui l’idea della pittura aveva cessato di essere materia di sentimento». 
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Nel 1982 l’artista si trasferisce a Vienna, e comincia a dipingere una serie di tele da lui definite espressioni di un “Barocco illecito”, dove la pittura appare più istintiva, sensuale e stratificata, come in Veste urbinate (1986-1999), per culminare nella serie dei Capricci (1975-85), dove la pennellata si fa più gestuale e materica. Uno dei momenti più alti dell’intera mostra è la sala Re_Publica Madre, degna conclusione del percorso espositivo, dedicata a alcune opere di grandi dimensioni, introdotte da una quadreria di disegni e progetti relativi a lavori poveristi come Il mio letto così come deve essere (1968), Un flauto dolce per farmi suonare (1967) e Anne (1968), che indicano quanto sia importante l’elemento progettuale nella ricerca di Calzolari. Si tratta di materiali rari e poco noti, necessari per entrare nel processo creativo dell’artista, che aggiungono un ulteriore elemento di interesse alla mostra. 
In fondo alla sala troneggia Mangiafuoco (1979), l’opera performativa più forte esposta al Madre, presentata nello stesso anno alla rassegna Journées interdisciplinaires sur l’art corporel et performance al Pompidou. «In Mangiafuoco il mio scopo era stato fare in modo che la fiamma viva non rendesse in alcun modo secondario il rosso dipinto sulla tela», spiega l’artista. Così l’azione della fiamma che esce dalla bocca del performer anima la tela e la rende incandescente, creando un effettivo contatto tra il colore del fuoco e il porpora della tela, in una competizione tra pittura e realtà che ritroviamo, come un fil rouge ideale, lungo tutto il percorso di questa antologica da manuale.
Ludovico Pratesi 

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