Proponendovi di presentare l’evoluzione di un linguaggio visivo così complesso – a volte imperscrutabile – come quello giapponese, come siete arrivati alla selezione di questi tredici artisti? Saprebbe giustificare la presenza in mostra di ciascuno di loro?
Sarebbe troppo lungo spiegare per ogni artista le ragioni. Abbiamo semplicemente, (Alessandra Mauro, Pascal Hoel e io) provato a rispettare qualche principio di base: saper scegliere per ogni fotografo delle immagini che rispettino la démarche dell’artista e soprattutto provare a trasmettere e a condividere con il nostro futuro pubblico il piacere che abbiamo provato nel farlo.
Ammettendo che si possa parlare di uno “specifico giapponese”, di un filo rosso che in qualche misura collega e identifica questo linguaggio e lo differenzia da quello occidentale: quali elementi visivi o simbolici indicherebbe per poterlo individuare? E, mettendo a confronto gli esiti della fotografia con alcuni della letteratura giapponese contemporanea (mi riferisco ad esempio alla prosa del popolare Murakami Haruki), non le sembra di riscontrare una forte carica di liberazione espressiva, in netto contrasto con la natura discreta e pudica della cultura orientale? Alludo a una concezione artistica più arcaica – forse più autentica – rispetto alla nostra. Qual è la sua opinione a riguardo?
È vero che la fotografia giapponese mette in risalto una cultura ben specifica, e visiva in particolare. Basta guardare anche solo alcune stampe giapponesi per comprendere quanto i codici siano diversi dai nostri. I giapponesi sono più sensibili ai simboli. Amano la semplicità e la forma assume per loro un’importanza particolare. Nella fotografia è spesso il contrasto tra bianco e nero a essere privilegiato. Si può aggiungere che c’è anche una preoccupazione a non scioccare e una volontà di trovare sempre la buona distanza. Pudore e discrezione potrebbero essere le parole chiave di questa cultura visiva.
Andando ad analizzare il mercato secondario dei 13 fotografi si possono notare significative discrepanze: si passa infatti da star come Hiroshi Sugimoto e Nobuyoshi Araki, che hanno raggiunto rispettivamente record di 1.888.000 $ e 90.000 $, con un volume notevole di fotografie scambiate (960 il primo e 661 il secondo), ad altri che si collocano in una posizione medio-alta (Naoya Hatakeyama che arriva ai 72.000 $, Eikoh Hosoe ai 20.000 $, Daido Moriyama ai 30.000 $), a un range situato tra i 1000 e i 5000 $ (Ihei Kimura, Shomei Tomatsu ecc), fino ad arrivare a un’assenza totale di transazioni, come nei casi di Hiroshi Yamazaki e Miyako Ishiuchi. Quale crede che sia la relazione effettiva tra valutazioni così eterogenee e qualità artistica?
Penso che il ruolo di un curatore, e ancora più quello di un direttore di un museo, sia di non cedere alle sirene del mercato, soprattutto quando ciò si mostri estremamente speculativo, come in questi ultimi anni. Non è il prezzo che determina il valore di un’opera, ma la sua presenza nel tempo. Il mercato può essere a volte un indicatore, ma dipende troppo strettamente dall’offerta e dalla domanda per esser considerato un criterio sufficiente. È là che giustamente interviene, tra i più competenti fra noi, la pertinenza della scelta, poiché c’è bisogno che essa rifletta sia le preoccupazioni fondamentali di un’epoca che la novità e l’originalità del soggetto. Ma anche e soprattutto che riesca a perpetuarsi negli anni.
a cura di eugenia bertelè
[exibart]
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