Novità da Basilea: da quest’anno Art Unlimited ha una nuova casa, un padiglione costruito da Herzog & de Meuron per ospitare la rassegna che riunisce 78 opere di grandi dimensioni, proposte dalle gallerie più importanti e coraggiose presenti alla fiera. Dal 2000, Unlimited è cresciuta a dismisura, fino ad attestarsi come un ineludibile termometro della temperatura dell’arte contemporanea nel mondo, alla pari di prestigiose rassegne come la Biennale di Venezia o la Documenta di Kassel.
Nel 2014 Art Basel sottolinea questa prerogativa, affidando per il secondo anno al curatore Gianni Jetzer, basato a New York, la cura della manifestazione, che si affianca ad una fiera consolidata e stabile.
Qual è dunque questa temperatura? Jetzer cita nella sua introduzione The Art of Building Cities, un testo pubblicato nel 1889 da Camillo Sitte, quasi a voler enfatizzare la dimensione urbana delle opere, ma in realtà Unlimited, vista nel suo insieme, parla piuttosto di una vocazione intima e domestica dell’opera, legata ad un rapporto poetico e rassicurante con gli oggetti intesi come evocatori di memorie. Non è un caso che l’installazione più articolata sia Children of this World (1990-1996) di Hanne Darboven, composta da giocattoli, registri di classe, pagelle e archivi legati al mondo dei bambini, in una Germania risorta all’alba del crollo del muro di Berlino. Un concetto che ritorna con Imagineering (2013), il video di Ryan Gander che vede protagonista la capacità creativa dei bambini attraverso il gioco e la costruzione di giocattoli, che ritroviamo nell’installazione di Christian Marclay, Shake Rattle and Roll (Fluxmix) del 2004, composto da 16 video disposti in cerchio dove giocattoli e piccoli oggetti vengono attivati dalle mani dell’artista protette da candidi guanti.
Oggetti capaci di produrre stupore e meraviglia attraverso la loro smaterializzazione luminosa, come la stella di luce e vapore con RRLyrae (2014) di Ann Veronica Janssens o il minerale che fluttua nell’oscurità nella proiezione di Melvin Moti The Eightfold Dot (2013) fino al quadrato luminoso di Doug Wheeler Untitled (1969-2013) . Ma anche oggetti fisici e vissuti, trasformati in dispositivi di memorie all’interno di ambienti evocativi e a volte disturbanti, spesso sospesi in una dimensione spazio-temporale indefinita: penso a XYT (2013) di Andreas Slominski dove reti di letti o di divani compongono gli arredi minimali di una sorta di chiesa, o a As far as possible (2012) di Rosemarie Trockel, un ambiente asettico e sterile sospeso tra un ospedale, un manicomio o un sanatorio, opposto a Wantee (2013) di Laure Provost, che ricrea l’atmosfera surreale e decadente della sala da pranzo dell’immaginario nonno dell’artista, intimo amico di Kurt Schwitters.
Nelle opere di artisti orientali invece gli oggetti si fanno veicoli di narrazioni familiari o storiche: edifici fatiscenti nell’India postcoloniale in Waiting for others to arrive (2013) di Sudarshan Shetty o la biblioteca personale della malese Shoosie Sulaiman Darkroom (2007-2009/2014) , mentre Eternity (2013/14) del cinese Zu Zhen si interroga sulle relazioni tra Oriente e Occidente assemblando calchi di statue del Partenone con Buddha di varie dimensioni, con un effetto davvero straniante.
Interessante anche il rapporto con la natura, un fil rouge che unisce alcune delle opere più poetiche di Unlimited. Parliamo di Zone (2013) realizzato da Bethan Huws: un video girato in una riserva naturale francese commentato da una poesia di Apollinaire sugli uccelli acquatici o di Birth (1981) un raro video di Ana Mendieta sul rapporto tra la terra e la femminilità. Classiche ma sempre intense le opere di maestri come Richard Long River Avon Driftwood Circle (1996), un cerchio di pezzi di legno tratti dalle acque del fiume Avon, Corck Spire (2012) di David Nash che consiste in una torre di cortecce di sughero raccolte in Portogallo e infine, last but not least, la monumentale Matrice di linfa (2008) di Giuseppe Penone, composta da un lunghissimo tronco d’albero diviso a metà, nel quale scorre della resina.
Rare le opere dichiaratamente politiche, quasi a voler suggerire la possibilità per l’arte di andare al di là del quotidiano, in un territorio rassicurante e onirico lontano dal nostro difficile quotidiano. A questo proposito l’installazione 20.000 Gun Shells (2011) di Matias Faldbakken, composta da un pavimento di bossoli di fucile, sembra indicare la volontà di non affrontare direttamente questioni spinose: sarà che nell’era globale l’arte è l’unica cosa capace di farci sognare?