Uomini che interpretano le donne |

di - 1 Settembre 2015
Una cornice ufficiale per sovvertire il più radicato degli stereotipi, che confina la donna al ruolo di madre per forza. Questa, la sfida lanciata da “La Grande Madre”, la mostra-evento dell’autunno artistico milanese ancora in clima Expo, curata da Massimiliano Gioni nel cuore dell’istituzione musealeper eccellenza, il ‘piano nobile’ di Palazzo Reale. Ma il progetto espositivo (nato dalla collaborazione tra Fondazione Trussardi e Palazzo Reale per Expo in Città 2015, promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano e realizzato con il sostegno di BNL Gruppo BNP Paribas) non si limita a documentare le mutazioni di immagine della maternità nell’arte del Novecento, omaggiando il rassicurante cliché a cui già dal titolo pare aderire, ma ambisce anche a testimoniare la dura lotta di emancipazione della donna verso un’autorappresentazione al di là dell’archetipico stereotipo in cui lo sguardo maschile l’aveva da sempre relegata.
Come Gioni stesso ha più volte precisato,via Skype da New York in occasione dell’opening, «La Grande Madre analizza l’iconografia e la rappresentazione della maternità nel corso del Novecento dalle avanguardie fino ai nostri giorni, attraverso le opere di oltre 100 artisti e numerosi documenti provenienti dalla storia visiva degli ultimi cent’anni, ma può essere descritta anche come una mostra sul potere della donna: non solo sul potere generativo e creativo della madre, ma soprattutto sul potere negato alle donne e sul potere conquistato dalle donne nel corso del Novecento. Partendo dalla rappresentazione della maternità l’esposizione si amplia per passare in rassegna un secolo di scontri tra tradizione ed emancipazione, raccontando le trasformazioni della sessualità dei generi e della percezione del corpo e dei suoi desideri».

Insomma, una bella provocazione nei confronti di quell’equazione incontrovertibile che il titolo stesso pare sposare appieno e che ha il merito di stimolare una complessa e – ahi noi – ancora necessaria riflessione sulla figura della donna come soggetto e non più solo come oggetto della rappresentazione. Il tutto, però, con il curioso paradosso di farlo attraverso immagini scelte ancora una volta da un uomo. Eccoci, dunque, a fare i conti con le prime impressioni a caldo e un po’ stremati da quello che si rivela essere un vero e proprio tour de force visivo.
Riuscitissimo l’obiettivo documentaristico teso a omaggiare le trasformazioni novecentesche del cliché “donna uguale madre”, attraverso un corpus immane di circa 400 opere di ben 139 artiste e artisti spalmato sui 2mila metri quadri di superficie del piano nobile di Palazzo Reale, suddiviso in un totale di 29 sale. I numeri da soli danno un’idea del faticoso e coltissimo ‘parto’ curatoriale, frutto di un lavoro di ricerca biennale per confezionare un percorso espositivo di carattere enciclopedico-museale dl’impressionante vastità, a dire il vero talvolta eccessiva a scapito del potenziale dirompente di alcune immagini e un po’ ingessato dalla rigidità del pur raffinato impianto storicizzante. Dunque, raccontare l’iconografia della maternità significa raccogliere, come in un grande album di famiglia (così Gioni l’ha definito), le immagini, i ritratti, scandagliando in modo trasversale nella cultura visiva del ventesimo secolo dall’arte, alla letteratura, alla psicoanalisi, al cinema, alla politica, in cui vicende esistenziali si intrecciano alla storia ufficiale. Così dalle veneri paleolitiche alle cattive ragazze del post-femminismo, per arrivare a forme generative postumane e post-gender, i sensi dell’essere madre e donna si stratificano di sala in sala restituendocene la complessità.

Ripercorrendo le sale ricordiamo l’interessante archivio di Olga Fröbe-Kapteyn, una raccolta durata una vita intera di idoli femminili, madri, matrone, veneri e divinità preistoriche, fonte di ispirazione di psicologi come Jung e Neumann nelle loro ricerche sull’archetipo della Grande Madre, già sviscerato da Freud qualche decennio prima, che sostituiscono la rassicurante visione ottocentesca di una maternità borghese con una versione più cruda e irrazionale, di cui le coeve allucinate incisioni di Kubin e Munch sono testimonianza. Poi, ancora, una serie di sale con un affollamento di immagini, qui davvero un po’ asfissiante, documenta la partecipazione della donna alle avanguardie storiche con opere di Boccioni, Marina Loy, Marinetti, Marisa Mori, Picabia, Duchamp, Man Ray, Sophie Taeuber-Arp, Ernst, Breton, Dalì e altri. Ma è con gli irriverenti capolavori surrealisti di Leonora Carrington, Frida Kahlo, Dora Maar, Lee Miller, Meret Oppenheim, Dorothea Tanning, Remedios Varo, Unica Zürne e altre che l’arte diviene strumento di una prima forma di autorappresentazione emancipante. Intento che si compie nell’imprescindibile ricerca di Louse Bourgeois (a cui viene riservata un’intera sala), dove la riappropriazione femminile del corpo si intreccia a simboli oscuri di mitologie arcaiche.

Tra altre artiste, raccolgono il testimone nelle sale successive Magdalena Abakanowicz, Lynda Benglis, Eva Hesse, Yayoi Kusama, Anna Maria Maiolino, Ana Mendieta, Marisa Merz, Annette Messanger che assimilano l’arcano potere generativo del corpo femminile alle misteriose forze della natura. Più politicizzati gli interventi di Carla Accardi, Joan Jonas, Mary Kelly, Yoko Ono, Martha Rosler, VALIE EXPORT che, facendo proprie le rivendicazioni femministe degli anni ’60 e ‘70 per una parità dei sessi, denunciano la reclusione femminile in uno spazio domestico teatro di sottomissioni forzate e violenze taciute. Oppure attaccano con ironia incendiaria l’ormai stantio modello di società gerarchica e patriarcale che identifica la donna in un mero organo riproduttivo, è il caso di Sherrie Levine, Lee Lozano e Elaine Sturtevant. Si tratta di una lotta cruciale continuata anche sul piano semiotico da Barbara Kruger, Ketty La Rocca, Suzanne Santoro che decostruiscono i clichés del femminile radicati nel corso di una storia scritta dagli uomini. Una storia, quella dell’arte, di cui si riappropriano negli anni ’80, mischiando sacro e profano, Katharina Fritsch, Cindy Sherman e Rosmarie Trockel.

Gli anni ’90 rappresentano la purificazione post-femminista dalle sovrastrutture con le opere di Rineke Dijkstra, Sarah Lucas, Catherine Opie, Marlene Dumas, Nicole Eisenmanin dove il corpo, mostrato con cruda e spudorata semplicità, si apre a forme generative post-gender che ridefiniscono la maternità per arrivare alle mescolanze biotecnologiche e pre o post-umane ipotizzate da Robert Gober, Kiki Smith, Pipillotti Rist, Gillian Wearing, Jeff Koons, Thomas Schutte, Nari Ward, Maurizio Cattelan, Camille Henrot o alla spettacolarizzazione iperrealista di un feto in evoluzione di Lennart Nilsson. Mentre la celebre serie delle Brown Sisters, in cui Nicholas Nixon ritrae ogni anno per 40 anni le quattro sorelle, condensa nello spazio di un agghiacciante colpo d’occhio lo scorrere lento e inesorabile del tempo verso la fine, il buio, l’assenza. Si anticipano così i temi dell’ultima sala, dove l’arte stessa, con Barthes, Mullican e Warhol fino all’Autoritratto come mia madre di Gillian Wearing (scelto come immagine della mostra), rappresenta il tentativo estremo di fermare in immagine quella madre, quell’origine perduta, quell’antro oscuro in cui l’inizio è fine e la fine è inizio che pian piano ci inghiotte, come racconta Niki de Saint-Phalle con l’ironia a tinte fluo che la contraddistingue.
Dunque, non è certo la completezza storicistica a mancare, che anzi permette di costruire un affascinante affresco del femminile, dando un meritato spazio per la quasi totalità delle opere ad artiste donne. Tuttavia, le aspettative nutrite un po’ dalla dichiarazione iniziale di Gioni di una visione spietata e poco rassicurante del femminile in grado di sovvertire il millenario cliché della Grande Madre, rimangono in parte deluse. Forse proprio a causa dell’impostazione documentaristica e museale. Ma se nella provocazione annunciata si procede un po’ con il freno a mano tirato, si è ricompensati dall’innegabile merito attribuibile a La Grande Madre di averci messo di fronte a quell’oscura complessità in cui il senso dell’essere donna e madre si intreccia al senso oltre umano dell’esistere.
Martina Piumatti

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