Vedere una mostra con i piedi

di - 1 Giugno 2014
Quando scriveva della sua “Arte di Frontiera” Francesca Alinovi era solita usare il termine “frequenze”. Lo faceva spesso, in realtà, per identificare con un lemma preciso quelle che erano le indicazioni creative che gli anni ’80 davano, per registrare sul sismografo della teoria e della critica d’arte la vibrazione di un presente vivo, contaminato. È quello che chiede anche Cildo Meireles, all’ingresso della sua mostra “Installations”, all’HangarBicocca di Milano. Anche in questo caso la direzione, e la mano curatoriale, di Vicente Todolí non sbagliano il colpo, anche se spesso si sono sentite in questi mesi critiche un po’ sterili nei confronti di una “spettacolarizzazione” dello spazio. Sarà, ma fa parte di quel rumore di fondo del mondo che, guarda caso, ci accoglie tra le opere dell’artista brasiliano. Babel è un totem di radio accese e sintonizzate ognuna su una frequenza diversa; suonano, parlano, pregano, in una moltitudine di voci alle quali giriamo intorno, mentre cerchiamo di identificarle. Per trovare, appunto, la nostra onda: quella che ci permetterà di attraversare la mostra. E la vita, se si vuole una metafora universale dell’arte, perennemente alla ricerca di una conoscenza che viene sempre negata nella sua totalità.
Troppo facile? Forse, ma quello che sembra insegnarci Meireles, attraverso le sue “Installations”, è che i temi fondamentali dell’esistenza restano tali, ed enfatizzarli non è un delitto. Su quale onda salire, dunque, per questo giro all’Hangar? Scegliamo di stare con i piedi per terra, perché questo traspare delle opere; pay attention at the ground. Che siano vetri o che siano uova, che sia carbone, gesso o ghiaia, si deve guardare a dove si mettono i piedi, mentre il cielo non c’è mai, o quasi. All’Hangar si parla di esistenza terrena, e mai di sogni; nonostante la costante visionarietà e la poesia non ci sono divinità, semmai solo una grande idea di paganesimo, dove l’uomo è protagonista assoluto con il suo corpo, al cospetto della meraviglia degli elementi terreni, e con le indicazioni dei disastri che è in grado di perpetrare a causa di un’indole difettosa sul piano del controllo e della conquista.
Il viaggio di Meireles a Milano è tutto questo, a volte diretto, a volte illusorio, come accade in Eureka, dove il + e il – sono solo simboli in grado di creare un =, spostando solamente i segmenti che compongono il loro linguaggio segnico. Ecco che tutte le sfere, in questo strano simil campo da bocce, sono uguali, ma alcune sono più pesanti delle altre; una lezione concettuale anche sul peso dell’arte, dove le medesime forme non sempre contengono in sé lo stesso significato.
Si scivola sul terreno tracciato da Meireles, pericoloso e affascinante come il labirinto sui vetri di Através, dove gli unici testimoni muti del nostro passaggio sono i piccolissimi e splendidi pesci trasparenti che nuotano controcorrente in due stretti acquari, con il silenzio dell’acqua a fare da contrappunto alla rottura perenne di quelle superfici di purezza, ogni giorno più sbriciolate dal passaggio dell’uomo. Che mistifica azioni e simboli in nome di “guerre sante”, di lotte “per dovere” di progresso, come nel caso di Olvido, la più politica delle installazioni all’Hangar: 6mila banconote di Paesi americani ricoprono una tenda indiana, circondata da 3 tonnellate di ossa di bue, a loro volta recintate da un muretto di 70mila candele. Pochi elementi oggettuali, ma connotati fortemente dall’odore nauseante delle ossa animali mischiato con la paraffina e il rumore continuo di una sega, che non solo taglia e sradica le riserve, ma serve anche per squartare le bestie negli allevamenti intensivi, nella produzione capitalistica della carne per il mondo. Una circolare che taglia anche le nostre radici, che spesso abbiamo brandito noi stessi, nella volontà di cambiare prospettiva, incendiando rapporti e passato.
La guerra, la corsa al potere, l’ipocrisia di un “credo” a un’entità santa e salvifica che permette l’annientamento dell’altro per “fare del bene” sono concetti in chiaro nella produzione di Meireles presentata nello spazio della Bicocca, e anche quando si cammina sulle 22mila uova di legno di Amerikkka il corpo del visitatore è l’elemento fondamentale della costruzione poetica: non solo è doloroso stare in bilico sopra la forma perfetta, ma si rischia anche l’allucinazione: sopra di noi un cielo – l’unico della mostra- composto da 55mila proiettili dorati, che nell’abbaglio può essere scambiato per un’alba, e non per una minaccia. Il pericolo è evidente, eppure viene percepito come innocuo, come in tutte le storie che danno inizio alle dittature “scelte” dai popoli, abbagliate come lo si resta in questo caso di fronte a scintillanti monocromi che, nello sguardo poetico di Meireles, sono anche un omaggio al grande Piero Manzoni, a Lucio Fontana o Yves Klein.
Cinza e Marulho, così come Babel, contengono un esplicito riferimento alle problematiche del linguaggio e della contaminazione; in Cinza due ambienti composti rispettivamente da un pavimento di gessetti candidi e da un terreno di nerissimo carbone, con l’intervento dei piedi del pubblico vengono via via “sporcati” l’uno con l’altro: gli spazi si fondono in un grigio indefinibile, riferimento ad uno “sposalizio” che, anche stavolta, ricorda le avanguardie: secondo l’artista brasiliano il gesso è idioma dell’arte di strada, del graffitismo, mentre il carbone l’elemento primario dell’arte, colore “antidiluviano” – come avrebbe potuto definirlo De Dominicis –  e sempre presente nella pratica creativa. Davanti alla distesa d’acqua composta dalle migliaia di pagine aperte sul blu di Marulho la questione di un melting pot del linguaggio è la medesima, anche se in questo caso si ritorna al rumore di fondo di Babel; quindici lingue, sovrapposte a recitare la parola “acqua” come un mantra, provocano una sorta di allucinazione uditiva: sembra l’eterno rumore delle onde nei porti più silenziosi, e invece è il mondo che parla, nella sua diversità e incomunicabilità, della stessa poesia.
L’ultima opera che scegliamo di “vedere con i piedi” è Para Pedro, che l’artista dedica al figlio. Qui a far rumore è la ghiaia calpestata che fa da fondo a un corridoio che termina con una serie di schermi tutti “sintonizzati” sull’assenza di segnale, quindi con il celebre effetto “neve”. La storia di un rumore di frantumi udito in una grotta e il risveglio improvviso, tempo dopo, con la stessa percezione, sono l’innesco per questa complessa installazione che parla dell’accavallarsi dei ricordi nella memoria, in un tempo di rimando bergsoniano, dove restano in un presente continuo. I piedi indugiano, spostano la ghiaia come si fa con la sabbia sulle spiagge, con la mente rivolta a cercare qualche “documento” che sia più vivido di un altro. Ma tutto è grigio, tutto è stato contaminato dal tempo, omogeneizzato. Eppure alcuni grani di ghiaia sono più grandi di altri, mischiati alla polvere. Che non stia qui la soluzione del rebus? Non lo sappiamo, ma guardandoci intorno sembra non ci sia troppo spazio per indugiare. C’è una Babele che aspetta di essere scoperta, indagata, amata. E sarà anche un castigo divino questa continua “illusione”, questa eterna frontiera da attraversare sulle proprie gambe, ma probabilmente è la migliore sfida che ci potesse capitare.

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  • L'Hangar Bicocca chiama installazioni voluminose che condannano necessariamente lo spazio a diventare un sorta di "luna park per adulti". Ogni opera sembra l'ennesima giostra da attraversare, spesso banalmente, e con cui interagire quasi forzatamente. Basta pensare al grande gonfiabile di Tomàs Saraceno, i padiglioni da visitare come tante piccole case delle streghe di Micol Assael; in corso la mostra di Cildo Meiereles con altrettanti padiglioni da attraversare, e in un caso, come per Saraceno, togliendosi le scarpe. Togliersi le scarpe è sinonimo di interazione spinta.

    Gli spettatori sembrano costretti ad una passività che li vede come scimmiette e criceti. Questo può essere molto fastidioso. Ma la colpa non è del Direttore e del Curatore, quanto del vincolo di uno spazio enorme (diremo vi-hagra bicocca) in relazione alle finalità del museo: coinvolgere e attirare un pubblico ampio.
    Lo spettatore adulto deve essere intrattenuto, interessato, formato e coinvolto; tutto questo con il solo momento della mostra. Questo crea uno strabismo, come se volessimo insegnare proponendo, dal primo giorno di scuola, solo compiti in classe. I compiti in classe renderebbero delusi gli studenti (pubblico) che non sarebbero in grado di risolverli, e gli insegnanti (l'istituzione) che avrebbe studenti delusi e ignoranti.

    Durante una recente intervista per la Radio Svizzera, al Direttore di Hangar Bicocca Vicente Todolì è stata riportata la mia critica: mostre che sembrano luna park per adulti. Se cliccate su questo link potete ascoltare l'intervista integrale:

    http://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/geronimo/Un-hangar-per-larte-contemporanea-a-Milano-422461.html

    Hangar Bicocca, una trasmissione per la Radio Svizzera con contributi di
    Vicente Todolì, Antonio Calabrò e Luca Rossi

    Todolì ha risposto che se l'Hangar Bicocca fosse un Luna Park chiuderebbe dopo due giorni...dal momento che non si paga il biglietto e tutto viene supportato da un grande sponsor come Pirelli, qualsiasi cosa che venisse fatta all'Hangar Bicocca avrebbe successo. Vicente Todolì parla di 400.000 visitatori in due anni. Quando mi sono recato all'Hangar Bicocca nessuno mi ha dato un biglietto e ha registrato la mia presenza. Come fa il museo ad emettere questi dati?

    La verità è che per Pirelli l'affluenza del pubblico è del tutto irrilevante (al di là delle apparenze), l'Hangar Bicocca deve semplicemente essere una grande insegna luminosa che sostiene Pirelli nella comunità come impresa buona e benefattrice. E sembra che il pubblico debba essere coinvolto all'interazione quasi forzatamente, spesso con modalità banali. Il primo gesto per l'interazione banale è togliersi le scarpe. Sembra che togliersi le scarpe sia la soglia per poter veramente interagire con l'opera d'arte. Nelle ultime tre mostre è successo due volte: per il grande gonfiabile trasparente di Tomàs Saraceno (molto simile ai gonfiabili che nelle piazze accolgono i bambini per giocare) e per una delle opere attraversabili di Cildo Meiereles.

    L'amico che ha fatto la trasmissione per la Radio Svizzera, rispetto queste mostre come luna park, mi ha scritto che l'arte riflette la società. A mio parere questa giustificazione non regge. Soprattutto se alcune istituzioni si fregiano di fare un lavoro prezioso e sofisticato per il bene della comunità, e per la cultura. Allora tanto vale andare a San Siro, o al Multisala vicino ad Hangar Bicocca con 18 sale. In cosa si differenzia il museo? Quale il valore dell'opera? Rispetto una società estremamente propositiva e ricca di input per il pubblico?

    La mostra è erroneamente considerata un momento didattico che allo stesso tempo deve essere formativo, ludico, educativo e riflessivo. Questo non è possibile.

    Non ci sono altri momenti, oltre alla mostra, per interessare, stimolare e formare un pubblico adulto; anche perchè un pubblico vero ed adulto esprime poi un giudizio vero ed adulto, e questo diventa molto pericoloso per l'istituzione che deve mantenere buoni rapporti con la comunità di riferimento. Come è possibile fare bella figura con la comunità di riferimento se il pubblico avesse gli strumenti per criticare le mostre?

    Prima di tutto vi invito a riflettere quando questa sera vi toglierete le scarpe per andare a letto: state per attraversare un'opera di Luca Rossi. E nel letto potrà succedere di tutto, fino anche i sogni.

    Inoltre vorrei che l'Hangar Bicocca diventasse una nuova ed unica opportunità per lo spettatore. Vorrei formare operatori che argomentino ossessivamente il valore delle opere d'arte. Questo anche partendo dalle cose e dagli elementi che sono già presenti in Hangar Bicocca, quando lo spazio è vuoto. O anche nello spazio occupato dalle Torri di Kiefer.

    Lo spazio sarà vuoto. Ma in realtà non lo sarà, perché non lo è mai.

    (in attesa di replica del curatore Andrea Lissoni)

  • Confutare l’artisticità e la fruibilità di questo genere di arte “partecipativa” definita una delle tante giostre da attraversare significa, a mio parere, non solo non capire ma non conoscere la storia dell'arte.

    Giulio Carlo Argan afferma che nella storia dell’arte non ci sono “progressi” ma “processi”.
    Un processo consente di inquadrare un fenomeno in base alle relazioni che crea con la civiltà e la cultura che rappresenta.
    Il criterio di giudizio dei fenomeni scientifici non è critico come nell’arte: per accendere la luce di un interruttore non abbiamo bisogno di sapere come funziona o cosa significhi; non abbiamo bisogno di porci nella condizione di accettare o rifiutare un “valore”.

    Le opere di Cildo Meireles mettono in gioco i modi di scambio sociale e pongono come fulcro dell’attività artistica l’interattività multisensoriale con l’osservatore all’interno dell’esperienza estetica. Attivando quella “osmosi estetica” duchampiana il completamento dell’opera non avviene più attraverso la sola vista, ma attraverso l’esperienza diretta di utilizzo e consumo dell’opera d’arte.
    Questa pratica artistica tende ad abolire la tradizionale separazione fra produzione e fruizione dell’opera d’arte che ebbe inizio con gli Happening alla fine degli anni Cinquanta. Entrambe le pratiche artistiche hanno in comune lo scopo di suscitare una reazione nello spettatore e di abolire la “quarta parete”: quell’invisibile confine fra opera e spettatore.
    Questi artisti concentrandosi sull’effetto che le loro opere produrranno sul pubblico creano e inventano dei modelli di comportamento sociale e pongono la questione dei nostri rapporti con le cose e con le persone: salire sulle 22.000 uova di legno dipinte di Ammerikkka togliendosi le scarpe, perché si vedono altre persone farlo prima; oppure esitare a camminare sulla superficie di Através ricoperto di frammenti di vetro poggiati e non fissati al suolo rischiando di tagliarsi finché non si ha l’autorizzazione dagli operatori culturali che incitano ad entrare; domandarsi cosa fare con due piccoli pezzi di ghiaccio contenuti in un frigorifero finchè non si leggono le istruzioni.

    Come non associare Entrevendo, l’opera in cui lo spettatore prendendo due piccolo pezzi di ghiaccio da sciogliere in bocca deve entrare in una struttura a forma di imbuto che termina con un termoventilatore acceso che non si vede, allo straordinario Happening di Allan Kaprow A spring happening in cui l’artista letteralmente intrappola i suoi spettatori in un tunnel alle cui estremità posiziona dei ventilatori che incalzano verso di loro.
    Entrambe le opere hanno in comune lo stesso obiettivo: metterci davanti alle nostre paure attraverso l’esperienza diretta della paura, non della sua rappresentazione.
    Lo spettatore invadendo lo spazio dell’opera con la sua azione, non solo infrange il tabù del non toccare dei musei (già sperimentato, tra l'altro, da Felix Gonzales-Torres), ma di fatto ne altera e ne modifica la forma e il suo significato.
    Tutte le opere di Meireles si basano sul concetto di consumo come progressivo esaurirsi delle cose dovuto sia all’intervento dello spettatore, sia all’azione del tempo.
    Questo inestimabile valore del cambiamento che interviene quando è richiesta la partecipazione del pubblico è esattamente il fattore che conferisce significato a questo tipo di arte: un’arte che come il tempo è irreversibile e che come la vita può solo andare avanti e mai tornare indietro.

    Non capire come l’azione spesso forzata dello spettatore sia necessaria al completamento dell’opera vuol dire non avere capito come la fruizione dell’opera d’arte oggi sia diventato uno scambio fra produttore e consumatore in cui quello che conta non è ciò che si è visto, ma ciò che si è vissuto.

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