Non deve essere stato affatto facile per Mauro Bonaventura, artista veneziano esperto e navigato, con opere in tanti musei e gallerie internazionali e nelle più importanti rassegne internazionali (Biennale Arte di Venezia del 2017 e XVI Mostra Internazionale di Architettura nel 2018), e soprattutto grande artigiano del vetro (Carnegie Museum of Art, Glass Museum Alter Hof Herding, Hida Takayama Museum of Art), presentarsi al “cospetto” della chiesa di Santa Maria della Pietà, alias Cappella Sansevero, celebre mausoleo d’arte barocca e di ingegno protoscientifico, lasciataci in eredità dai principi dell’omonimo casato.
Per uno scultore questa cappella è un po’ come entrare nello Stadio Maradona per un calciatore o per un tifoso. Si sa cosa è successo qui, quanto i napoletani amino e venerino questi spazi. Così è nata la mostra “In vitro humanitas”, presentata da Maria Alessandra Masucci, presidente del Museo Cappella Sansevero e curata da Jean Blanchaert. Avvicinandosi con circospezione. Addentrandosi con gratitudine e meraviglia.
L’artista di Venezia, dotato di coraggio, tecnica e inventiva (doti necessarie per un Diez) avrà sicuramente pensato e ripensato a colui che ha dato forza e materia viva a questo spazio incantato: una cappella raramente colta dal silenzio e dal raccoglimento, anzi quasi sempre travolta dall’entusiasmo di turisti e visitatori. Più o meno come avveniva allo stadio per le finte del D10s. E il suo principale artefice, il Principe Raimondo di Sangro, a differenza del grande calciatore argentino scomparso nel 2020, rimane entità invisibile, regista occulto di tutte le meravigliose opere, delle atmosfere ora nitide, ora ombrose che connotano la cappella.
Il “Principe” (l’unico a Napoli a fregiarsi di tale titolo) avrebbe apprezzato queste “nuove” macchine anatomiche, queste due figure portate in “omaggio” da Bonaventura alla cappella, opere in vetro di Murano poste accanto ai propri gioielli plasmati dall’ingegno, dal mistero e dalle dicerie? Come le avrebbe guardate? Con sospetto o con curiosità?
Sì, perché le famose “macchine anatomiche”, i due scheletri umani rivestiti di una membrana di cera d’api, fil di ferro e seta, a perfecta imitatio dell’apparato circolatorio, posizionate nella cavea sotterranea della cappella, sono manufatti unici al mondo. Impongono a un mausoleo già di per sé magnifico e citato in ogni manuale d’arte, quella scheggia di mistero, quella reliquia di eternità, quell’ultima mossa disperata che prolunga la partita a scacchi con la Morte (qual è tutto il Baracco napoletano). I colori accesi e quella vividezza, tipica dei lavori di Bonaventura, avrebbero potuto strappare questo ordito perfetto, questo racconto in equilibrio da secoli? Probabilmente No.
Se il Principe avesse osservato questi splendidi manufatti non avremmo colto granché dal suo sguardo. Sarebbe rimasto impassibile e in silenzio perché avrebbe speso ogni secondo per osservare questa trama d’arista, delicata e sorprendente. Quasi sicuramente, da esperto conoscitore di produzioni artigianali e manifatturiere, avrebbe riconosciuto la raffinata tecnica veneziana, eredità di antiche maestranze egiziane e siriane. Metodi segretissimi, sviluppati solamente sull’isola di Murano all’insegna di una condivisione ai limiti del settario e dell’esoterico che il Principe, gelosissimo dei suoi segreti e delle sue conoscenze, avrebbe indubbiamente apprezzato.
D’altronde al Principe “regista”, che lavorava alacremente alla composizione della sua Cappella, della sua memoria, in una città ricolma di arte e bellezza diffusa, misteriosa, povera quanto scintillante, non gli bastavano i capolavori del Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, la Pudicizia di Antonio Corradini e il Disinganno di Francesco Queirolo.
Solo quell’alone di mistero, quelle oscure dicerie che orbitavano attorno al proprio “antro” misterioso, circondato da chiese monumentali e vicarielli oscuri, avrebbero irrobustito, rafforzato il mito della Cappella e del suo “diabolico” ideatore. Fino alla leggenda.
Al giorno d’oggi, però, il vero segreto è il lavoro, duro e silenzioso. Dopo anni di apprendistato in una fornace veneziana, trascorsi a perfezionare soffiatura e decorazione, per Bonaventura vi è stato il grande salto. L’invito di un “gran maestro” vetraio a scoprire la lavorazione somma, quella “a lume” dove è permesso scorgere i segreti alchemici, i confini materici del vetro attraverso la conteria, attraverso le perline di vetro arrotondate, l’uso della canna vietrae, della fiamma con cui informare nuove dimensioni dell’immaginazione e della creazione.
Cosi le due sculture di Bonaventura, Homo Erectus e Flying, complessi intrecci vitrei monocromo e policromo, sono il frutto di un lungo lavoro di fusione, raffreddamento, prove di equilibrio, legature e cuciture simili a una stoffa pregiata confezionata da un’antica sapienza levantina e destinate a nobili sguardi.
Alla ricerca di quel desiderio di forma, quel gioco del limite, di perfezione, che tanto si approssima al tocco miracoloso, al “velo di marmo” del Cristo Velato, sinestetica visione dell’assoluto e del terreno, del divino e dell’umano levigata dal Sammartino ma fortemente voluta dal Principe.
E quando l’artista varcherà nuovamente, con le sue opere, questa porta interdimensionale, questo luogo sovrannaturale qual è la cappella, potrà dire di aver avuto fortuna, di aver toccato l’intoccabile, di aver scorto il supremo mistero della materia e dell’ordine delle cose. Così come noi, gente di queste terre, potremmo dire, ancora una volta, di aver assistito a un nuovo capitolo, a un nuova mirabilia del “nostro” Principe di Sansevero.
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