Vita o artista in transito?

di - 4 Dicembre 2013

Attesa con una certa trepidazione, al PAC di Milano è ancora in corso Vite in transito, personale di Adrian Paci, per la prima volta protagonista di una retrospettiva in uno spazio pubblico del capoluogo lombardo. La mostra, sin dalla felice scelta del titolo, si preannuncia come un evento in grado di coniugare il gusto del grande pubblico e la critica. Il lavoro dell’artista albanese, nato a Scutari nel 1961, in pochi anni ha riscosso grande successo, tanto da essere consacrato con una personale, svoltasi nei mesi scorsi, presso gli spazi del Jeu de Paume di Parigi, istituzione prestigiosa e très à la mode.
Curata da Paola Nicolin e Alessandro Rabottini, il corpo espositivo della mostra di Milano raccoglie pitture, video, disegni e opere plastiche che spaziano dalla metà degli anni Novanta fino alla produzione più recente, con l’inedito progetto da The Column (2013), uno degli elementi della mostra più convincenti.
Paci è un artista che utilizza media tradizionali e non, privilegiando il video, attraverso il quale realizza opere di grande respiro incentrate su temi universali quali l’apolidismo, l’identità culturale dei popoli, la fede, il macro-tema del viaggio e dello spostamento – metaforico e reale – la storia privata in relazione all’identità collettiva. La riflessione sui temi sociali è cardine della sua opera e, mai come in questi anni di deflagrazione dell’area mediterranea, di feroci cronache di migrazioni, appare attuale e necessaria.

Eppure, malgrado le carte in tavola per un sicuro successo ci siano tutte, via via che ci addentra nel percorso espositivo sorprende scoprire come le opere in mostra non riescano a raggiungere la compiutezza di un corpus veramente maturo, ma siano segnate da una significativa discontinuità.
Aprono la mostra la bobina con gli acrilici di I Racconti di Canterbury (2010): già nei primi passi del percorso espositivo si ravvisano episodi di notevole felicità espressiva in netto contrasto con opere dall’esito più opaco. Le pitture di Passages e Secondo Pasolini appaiono in bilico tra una certa immediatezza che si rapporta in maniera dialettica e stimolante con una manifesta programmaticità, ma a tratti si possono rinvenire passaggi chiaramente “fuori fuoco”, per mutuare un termine cinematografico. Ciò non accade nell’opera grafica, che colpisce per qualità e freschezza: produzione questa sicuramente meno nota, poetica e anti-didascalica, che risulta in ultima istanza proprio uno dei capitoli più interessanti della mostra.
L’esperienza umana e artistica di Paci entra con prepotenza nel percorso espositivo e non lascia indifferenti. Nei video collocati nella parte iniziale del percorso la sua condizione di artista esule, costretto a piegarsi alla necessità di eseguire opere su commissione, evoca una critica aperta a un sistema dell’arte schiacciato da dinamiche economiche speculative e prelude al video The Column, dove altri artigiani forse inconsapevoli della finalità del lavoro che stanno svolgendo, realizzano un’opera simbolo, un enorme totem senza tempo dell’arte, una colonna di marmo di stile classico – che è sempre “senza fine”, come insegna Brancusi – e viaggia nello spazio e nel tempo su una nave enorme per giungere fino a noi, arenandosi come un cetaceo nella sala del museo.

La presenza di questo malinconico leviatano, adagiato negli spazi del Pac, irradia una malinconia struggente, come un relitto incagliato dopo un naufragio, e chiama lo spettatore a compiere una serie di riflessioni sull’arte, dalle vestigia di un passato occidentale glorioso a un presente vitale ma frammentato, in cui la condizione dell’arte rispecchia le contraddizioni di una civiltà in profondo mutamento e conflitto.
Se The Column è emblematica e potente, ciò che convince meno invece è proprio parte della produzione video. Electric Blue (2010), ad esempio, non sembra centrare l’obiettivo che presumibilmente si prefigge: la vicenda al centro del video può essere un punto di partenza stimolante  per una riflessione critica sulla visione e sulla violenza, ma l’analisi si attesta in superficie, accostando l’immagine pornografica alla visione/esperienza della guerra, senza riuscire a problematicizzare il linguaggio specifico del mezzo. Pasolini, seppur rievocato costantemente, appare come un fantasma, un orizzonte vago, e si stenta a trovare un concreto aggancio alla sua opera, qualcosa che vada al di là dei topoi più consueti. Analoga sensazione con pilgrIMAGE (2005), dove le immagini dei volti dei fedeli non riescono a spiccare un salto per superare il dato flokloristico-antropologico, Valtojca (2002), riflessione sulla morte e Last Gestures, video incentrato su scene da un matrimonio albanese.

Più lieve il registro di The Encounter (2011), nel quale l’artista stringe le mani di una folla che si sussegue ad evocare la necessità di superare lo scontro tra le diversità e l’accettazione di una società multiculturale. Un gesto d’apertura, carico di significato che supera con una leggerezza calviniana la dialettica insita nelle differenze. Efficace anche la rappresentazione dei disoccupati senza voce di Turn On (2004) e potente l’attesa vana di Centro di permanenza temporanea (2007). L’opera è diventata immediatamente rappresentativa del lavoro di Paci, e sebbene le vada riconosciuta una indiscutibile forza comunicativa, rimane la sensazione che i fotogrammi siano immediati ma non densi, come se l’opera agisse nello spettatore più a livello emozionale che alimentando una riflessione profonda e fertile nel tempo, anche e soprattutto nel tempo successivo alla visione della mostra.
Convince infine Inside the Circle (2011) che nella limpidità delle immagini in bianco e nero lascia spazio all’esperienza dell’artista a confronto con un cavallo, animale salvato dal macello, dove la sottrazione dell’elemento narrativo va a tutto vantaggio della forza, della presenza dell’immagine.

Nel lavoro video di Paci, benché osannato quasi unanimemente, si ripresenta l’eterno conflitto tra quelle opere che rientrano di diritto nella definizione, peraltro dilatata, di “cinema”, e quelle eterogenee che vengono catalogate, sovente in maniera impropria, nel grande calderone della videoarte e delle sperimentazioni audiovisive. Protette nel sereno involucro del mainstream, le opere cinematografiche raggiungono spesso punti di riflessione critica e di densità che le fa entrare di diritto nel novero dell’arte contemporanea; le opere d’arte audiovisiva, come maledette da un nome che impedisce loro di trovare una forma definitiva, una compiutezza, scontano invece massivamente l’onere di una mancanza di rigore interno, forse di una tradizione sulle cui rovine costruire nuove proposte, e la relativa freschezza dal punto di vista anagrafico di queste sperimentazioni spesso porta con sé più una forma di immaturità che una dirompente energia adolescenziale.

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