Vivere ad arte

di - 21 Settembre 2016
All’ingresso non troverete un paio di pantofole, troppo anche per «una mostra pensata per far vedere le opere come a casa». Francesca Pasini, direttore artistico della Fondazione Remotti di Camogli e curatrice della mostra “La rete dell’arte nella rete della vita” (visitabile su appuntamento fino a dicembre 2016) l’ha voluta così, un’esposizione tra l’informale e il domestico, che si prefigga a suo dire di «scaldare l’ambiente» proprio quando quest’ultimo è in verità molto poco domestico, per contrasto inserito in una dimensione territoriale contenuta, pittoresca, di una quiete quasi “irritante” per l’uomo immarcescibilmente urbano. Caratteristiche che demandano alla Fondazione Remotti un ruolo «diverso rispetto a quello che avrebbe se fosse in una grande città», sottolinea la curatrice, ben contenta di poterne sfruttare le doti da “trasformista” nello svestire e rivestire le opere, puntando a far indossare ad algidi pezzi d’arte contemporanea vesti insolitamente casual.
Oltretutto è anche più facile, più spontaneo, catturare il passante d’un rinomato paesotto di mare costruendogli attorno un’ambientazione che tenti d’invogliarlo a vivere l’arte contemporanea, a sedersi nel comodo salottino – divanetto e due poltrone – in rattan appositamente allestito; a frugare nella libreria di casa Remotti, piena di libri d’arte e in vari anfratti disseminata di piccoli lavori contemporanei che provano a raccontare (o per giunta a far “esperire”) l’arte dei suoi tempi come un qualcosa di più vicino ai propri bisogni. È il passante che per la curatrice «difficilmente ha modTuttio di andare a casa del collezionista», ma facilmente riesce ad usufruire dei suoi beni quando questi cambiano residenza; quando la “montagna va da Maometto”, ridefinendo l’approccio verso alcuni pezzi acquisiti in base a scelte molto soggettive (comunque estranee, ad esempio, da quelle di un museo). Le difese calano, avventori e arte contemporanea siedono alla stessa tavola; potreste osare un selfie con un Maurizio Cattelan non di primo pelo, commissario tecnico della sua squadra di immigrati africani in un progetto presentato ad Artefiera Bologna nel lontano 1991, piccolo multiplo che i Remotti si sono accaparrati ai tempi. Sulla base di questo sistema espositivo la grossa monografia su Aligi Sassu a fianco, allocata negli stessi centimetri cubici di libreria, più che funzionare da valore aggiunto è valore “punto e basta”, in un insieme espositivo dove non si evidenziano figli e figliastri, protagonisti e comprimari.
Arte alla portata di tutti non è un concetto dell’ultim’ora, ma una prescrizione sempre valida se in un settore tacciato e minacciato di vacuità ci si vuol sporcare le mani seriamente. E in casi del genere il lavoro curatoriale è un meccanismo sincronizzato ad hoc sui modi e tempi del collezionismo, con l’idea pasiniana secondo cui «per il collezionista le opere sono come una compagnia». Si è scelto quindi «di non creare nessun percorso, né cronologico, né storicistico», racconta la curatrice, una libertà che (comprendendo gusti personali, scelte soggettive e derivazioni affettive) non semplifica il mestiere della Pasini, acuendo la complessità nel dare costrutto organico alla struttura espositiva. Perciò nella selezione/esposizione dei pezzi – la maggior parte integrante di casa Remotti, e comunque tutti tassativamente provenienti dall’omonima collezione – è stato fondamentale l’ausilio della padrona di casa, un’effervescente Natalina Remotti particolarmente legata al proprio “tesoro”, fiera con questa mostra di portare «la casa in galleria». E agguerrita sui primati della Fondazione, particolarmente quando di fronte ad una teca con ragno (ormai defunto) di Tomàs Saraceno si tira in ballo la passata personale allestita dall’artista a Villa Croce un paio d’anni fa («la mostra con gli aracnidi l’ha fatta ancora prima da noi», afferma col suo piglio deciso Natalina Remotti).
Collezionisti-protagonisti, i coniugi Remotti escono dal buio come numi tutelari dell’arte, inseriti a capo del salottino in rattan in un grande ritratto fotografico-post caravaggesco opera di Clegg&Guttmann. Tra le due poltrone appena sotto una busta marchiata Louis Vuitton è lasciata a sé stessa, reggendo bene il peso strutturale dell’atmosfera chic-che-non -impegna di una signora appena rientrata in casa dopo lo shopping. Queste primissime battute sono già uno snodo cruciale per la mostra, perché se esiste una risposta all’incrocio di reti citato nel titolo scelto dalla Pasini (volutamente ispirato alla rete del World Wide Web, tema cui si è dedicato quest’anno il Festival della Comunicazione di Camogli) è in quell’ambientazione di realtà costruita, entro cui quella è una busta quanto un’opera d’arte, teoricamente in carta quanto praticamente in solido metallo. Uscita da una boutique quanto firmata dall’artista Jonathan Seliger. Se si prova a sollevarla pesa, se la si guarda non stupisce, anzi viene voglia di piegarla e riporla con altrettante buste. Nel suo piccolo essere parte di quel contesto è riprova di come a certi livelli l’arte contemporanea possa latitare/aspirare a latitare nel quotidiano, così come il collezionismo inevitabilmente entrare testa e piedi a far parte della vita, almeno di alcuni particolarmente fortunati e sensibili a certi richiami. Anche perché, pare palese, non tutti potranno vantare in casa propria un tavolo da pranzo firmato Mario Ceroli, piano su cui posare Saraceno assieme ad una Blue baguette di Man Ray. I Remotti, sì. E una certa intellighenzia rimarrà delusa, ma non c’è necessità di sproloquiare per cercare sopraffini nessi tra i tre artisti, interessa solo notare come unicamente raggruppati costituiscano un’installazione votata a creare e riportare quell’intimità formato famiglia che le loro opere, prese singolarmente, non assicurano.
Buona parte delle opere è comunque appesa di fila alle pareti, sempre ricorrendo ad un approccio personale, casalingo semmai; all’interno del quale comunque è stato possibile ritagliare anche una sezione tematica in cui il soggetto “donna” è scisso come le facce di uno stesso prisma, tra femminile spregiudicatezza e leggerezza. Tuttavia non si voluto produrre una linea (concettualmente) retta, piuttosto una sinusoide che flette ad esempio tra l’impareggiabile leggerezza a carboncino di Alexander Katz (che, insindacabile parola di curatrice, «sta bene con tutto») e la qualità narrativa ben più piccante di Takashi Murakami, mettendo tra l’uno e l’altro la vita in “still life” di Florence Henry.
Tanto la Pasini quanto la Remotti tengono a dire che questa «è stata una mostra impegnativa», prova provata ne è il lavoro di Takis Zérdevas, ancora in fase d’assemblaggio al piano superiore; meritano però l’attesa d’essere appesi i tre fogli in acetato con cui l’artista greco ha accorpato e destrutturato i vari elementi di un paesaggio, un gioco prospettico che nella sua semplice presa non a caso richiama il Munari illustratore del libro Nella nebbia di Milano.
Ovviamente noi di Exibart misuriamo l’impegno a modo nostro e, coerenti con la prospettiva vitale/quotidiana offerta dalla mostra, potremmo paragonarlo a quello profuso verso un grande pranzo delle feste fatto di tanti piatti ricchi in cui ci si ficca volentieri, soprattutto se si tiene conto che gli artisti sono tanti e la qualità alta. Ad aspiranti collezionisti e non assicuriamo che girando tra i due piani c’è da sbizzarrirsi, saltando dal fu-contemporaneo Lucio Fontana al prezzemolino-contemporaneo Francesco Vezzoli, dal concettuale autoctono Luca Trevisani a quello d’importazione Jonathan Monk. Da quello coi colpi di kitsch in canna, Haim Steinbach, a un duo di svizzeri che con la studiata reazione a catena del video The way things go ha – come da titolo – intrecciato a tutti gli effetti “la rete dell’arte nella rete della vita”, creando secondo Pasini una sorta di canovaccio-sequenza «copiato da molte pubblicità odierne». Loro sono Fischli & Weiss, correva l’anno 1987.
Andrea Rossetti

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