Ultimamente sembra esserci nell’aria una gran voglia di anni Novanta. Quel decennio sull’orlo del millennio, sospeso tra grandi ottimismi – la caduta del Muro, i sogni europei – e grandi pessimismi – la caduta delle Torri. Per quanto mi riguarda, un decennio che musicalmente ha partorito opere di rara freschezza da Achtung Baby degli U2 a Ok Computer dei Radiohead, passando per il grunge dei Nirvana, per il brit pop dei Blur, per il trip hop dei Portishead.
Ma cosa succedeva sul versante artistico, fuori dalla banda dei ragazzacci del Goldsmiths, gli Young British Artists, e dal loro patrono e mentore Charles Saatchi? Si cercava ovunque di uscire vivi dal postmoderno, con ogni mezzo, e ciò spiega quella eterogeneità di modi e temi da cui spuntarono un Cattelan o una Beecroft, per esempio, tanto per dirne due a caso.
Forse è passato abbastanza tempo per cercare di fare il punto, per qualche timido tentativo di storicizzazione del decennio, e ci sta provando in questi giorni la mostra “Liberi Tutti!” a Torino (il cui titolo, non ha caso, è lo stesso di una canzone dei Subsonica, grande band emersa nei Novanta).
A Roma, in attesa di una auspicabile bella mostra del MAXXI sul tema, ci pensa intanto il Macro a orientare i riflettori sul periodo: “Appunti di una generazione” è una rassegna di mostre su artisti italiani d’origine o d’adozione, presi a due a due, emersi durante l’ultimo decennio del XX secolo. Giuseppe Pietroniro e Andrea Salvino aprono il ciclo (fino al 26 luglio) – a cura di Costantino D’Orazio, un altro sopravvissuto della generazione X – invadendo i due studi all’ultimo piano dell’ala vecchia del museo (dovrete cercarli da soli però: molti custodi, seppure gentilissimi, ignorano completamente persino i nomi dei due artisti, regalandovi sguardi persi nel vuoto come se aveste chiesto informazioni sulla longevità media del pangolino o a che ora parte la prossima astronave per Marte!).
Con l’installazione site specific, È come se nulla fosse…, Pietroniro adatta all’ambiente del Macro, espandendola, l’idea di Modular, già presentata nel 2014 allo spazio Geddes di Roma.
Il wall painting, che occupa tre pareti della sala, è tutto giocato su scale di grigio e superfici di acciaio specchiato, e mette in discussione ogni punto di riferimento spaziale del visitatore: superfici geometriche, variamente oblique, si susseguono in un balletto di inganni ottici e qui pro quo prospettici, aprendo inaspettati punti di fuga illusori. Il visitatore, circondato dall’ambiguità spaziale, vaga da una finta certezza all’altra, in un gioco continuo tra spazio e rappresentazione di esso, in cui è inclusa anche la propria immagine, grazie alle superfici specchianti. Tutto sembra in prospettiva, ma tutto, avvicinandosi, appare impietosamente piatto e in piano con la superficie del muro. Sembra di essere finiti nell’incubo peggiore di un Leon Battista Alberti o di un Brunelleschi, accompagnati da Kosuth e Spalletti – non a caso maestri di Pietroniro. Da loro l’artista ha ereditato il gusto per l’ambiguità percettiva e per il paradosso semantico, ponendosi nella scia sia di Magritte – «Questa non è profondità» sembra dire Pietroniro, parafrasando il «Ceci n’est pas une pipe» del maestro belga – sia della tradizione dei maestri rinascimentali con le loro illusioni trompe-l’oeil.
L’opera è stata realizzata appositamente per questa mostra, e potrebbe lasciare deluso chi avesse voluto trovare una mostra antologica, rappresentativa di tutte le fasi della ricerca di Pietroniro – e in special modo quelle degli anni Novanta. Tuttavia, è presente un anello di congiunzione con i vecchi lavori dell’artista.
Si tratta di una immagine fotografica, voltata verso una delle pareti, che si nasconde alla vista dell’osservatore, pur lasciandosi sbirciare attraverso uno specchio montato sulla parete stessa: forse è un paesaggio, l’unico riferimento prospettico a una profondità verosimile tra tante profondità false. E probabilmente anche la dichiarazione dell’artista di un allontanamento da quel progetto fotografico, forse esaurito, entro cui è circoscrivibile molta della sua precedente produzione.
Si potrebbe quasi dire che all’impietosa frammentazione prospettica operata da Pietroniro corrisponda un’apparente frammentazione della prospettiva storica messa in scena da Salvino attraverso i suoi lavori.
“Ricominciare da capo non vuol dire tornare indietro” è il titolo della mostra, ma è anche il titolo del monumentale olio su tela che domina la sala, datato 2002, raffigurante una scena di guerriglia urbana risalente ai fatti del G8 di Genova del 2001 – e dipinto con la tecnica divisionista, quasi fosse un’attualizzazione del Quarto stato di Pellizza da Volpedo.
In mostra Salvino propone una selezione piuttosto completa di lavori vecchi e nuovi: si alternano riflessioni sul terrorismo e sul nazi-fascismo a spunti presi dalla cultura popolare, anche pornografica, degli anni Trenta e Settanta suggerendo un fil rouge narrativo che si dipana attraverso letture altre della storia.
Nel dipinto più vecchio in mostra, 1998, alla raffigurazione del bagno blu del Vittoriale di Gabriele D’Annunzio, si sovrappone lo slogan dannunziano, e poi fascista, Me ne frego; altrove, alcuni bagnanti berlinesi, a seconda guerra mondiale appena finita, posano davanti alla tomba di alcuni militi del Wehrmacht: mentre può capitare di intravedere il volto di Tony Manero, tratto da La febbre del sabato sera, o l’immagine della pornostar Cicciolina, come fosse uno schizzo di un qualche Otto Dix o Max Beckmann finito in un bordello, o ancora l’atleta en travesti Heinrich/Dora Ratjen, che si qualificò quarto alle gare femminili di salto in alto delle olimpiadi del 1936.
Lo stesso spirito percorre la raccolta di materiali così eterogenei – fotografie, manifesti, disegni d’epoca appartenenti alla sua collezione e variamente manipolati, o riprodotti attraverso pittura o disegno – che l’artista ha assemblato su una parete per l’occasione: si intuisce l’esigenza di Salvino di esplorare un percorso personale che è allo stesso tempo di pratica artistica e di consapevolezza politica e sociale. La necessità di capire il proprio presente passa necessariamente attraverso la storia, e la comprensione del proprio passato. Niente di più vero, soprattutto per noi italiani.
Mario Finazzi
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Il lavoro al MACRO di Roma di Giuseppe Piertoniro(toronto1968) si colloca tra le esperienze più convincenti dell’analisi semantica dello spazio. Sicuramente appartiene a quegli artisti che hanno seguito il detto di Roland Barthes che così recitava: “Quelli che trascurano di rileggere si condannano a leggere sempre la stessa storia” dal momento che sfugge i facili rimandi per affrontare il presente calibrando la legittimazione dei linguaggi al motivo precipuo della precarietà. Per Pietroniro è instabile ogni presupposto punto di vista, ne scova infatti il punto di rottura, esaltando lo scivolamento, la vertigine e l’annullamento tautologico. Mettendo in discussione con un suo tipico rigore formale ogni certezza istituzionalizzata, gioca a rimpiattino con i rimandi e le citazioni usando soluzioni semplici, a problemi complessi soluzioni, però, tutt’altro che semplicistiche, tantomeno ludiche o pigramente concettualizzate. Forse è oggi uno degli artisti più convincenti della scena romana.