Warhol sul comò. E Beuys sul letto

di - 3 Aprile 2015
Allora, abbiamo due Chairman Mao, una Jacqueline e un Silver car crash del più celebre europeo d’America, Andy Warhol. Li mettiamo in sala da pranzo? Ma si, tra i feltri di Robert Morris, una tela di Mario Schifano e una parete di quadrucci in gesso dipinto di Allan McCollum, artista immediatamente più concettuale e in qualche modo anti-pittorico di Warhol stesso. Col quale peraltro potrebbe fare benissimo a pugni, se non fosse che insieme “funzionano”. E come in ogni sala da pranzo ci vuole un arredamento a tono, quattro sedie attorno ad un bel tavolo dalle linee pulite, laccato nero, per centrotavola un marmo di Ai Weiwei, su cui campeggia un intricato e coloratissimo punto luce firmato Tobias Rehberger.
Warhol sta con Rehberger e compagnia bella. Avanzando una perla di lessico italico qualcuno avrebbe detto: che c’azzecca(no)? Un gruppo di artisti totalmente slegato da una netta visione critica può essere roba forte, soprattutto tecnicamente impossibile da ritrovare così dislocato in una sala di museo. A meno che non siate a Genova e non si tratti di Villa Croce, alias casa di Rosetta Barabino, collezionista d’altri tempi e modi, madre di tre figli e figura cardine della mostra “Andy Warhol sul comò” (fino al 5 luglio). Qui si parla di una collezione, di una donna e della sua famiglia, dell’intuito di “una capofamiglia” proiettata al futuro, arrivata all’arte contemporanea supportata dal figlio minore, Maurizio, come e più di lei affascinato da posizioni visivo-espressive in mutazione continua. Erano gli strascichi degli anni Sessanta, quando in Italia le divergenze politiche non passavano per facebook o twitter, e la passione per l’arte contemporanea a Genova mobilitava investimenti assieme a questioni di interior design, visto che la signora Barabino le opere voleva fruirle, sfruttandole anche nel loro potenziale estetico. E se un Incomplete open cube di Sol Lewitt poteva essere troppo voluminoso per i propri metri quadri semmai si pensava di rispedirlo al mittente, a Torino, dal gallerista Gian Enzo Sperone. O se alla fine lo spazio saltava fuori lo si teneva con molta soddisfazione all’ingresso.

Tallone d’Achille del sistema museale è proprio quella fruibilità (dove l’estetica ha un buon peso), persa in virtù della missione didattica che gli compete, più o meno centrata che sia. Ma Villa Croce è uno di quei casi a parte e lo sa bene chi ci lavora dentro, a cominciare dalla curatrice Ilaria Bonacossa. Era pur sempre una residenza, pertanto mediare tra la sede istituzionale che è oggi e l’abitazione privata che fu non soltanto è una posizione critica condivisibile, ma anche una trovata per tirar su una mostra trasversalmente più attrattiva e ritmata rispetto al monotonico cliché della “noia museale”, ormai una figura retorica che in Italia viene indistintamente applicata a qualunque sede espositiva. Stereotipo che si alleggerisce solo chiedendo aiuto (spesso indebito) ad icone dal grande potenziale evocativo, ma con risultati che definire controversi è un eufemismo. E in questo contesto una mostra che provi a catturare pubblico senza nemmeno provare a tirargli il “pacco” ha già vinto.
In qualche modo è pure una posizione spontanea se si ha tra le mani la collezione Barabino, storia (inedita, è la prima volta che trova spazio in un’istituzione pubblica) nella storia dell’arte contemporanea, un nucleo nato e sviluppato coerentemente coi suoi anni, seguendo inflessioni di gusto personale e dettami estetico-pratici che gli hanno donato una conformazione ben precisa. Una collezione che non è nemmeno riuscita a prendere il caratteristico odore di stantio, continuando ad evolversi – grazie al figlio Maurizio – anche a ventinove anni dalla scomparsa della sua “mentore”. Perciò, con un arco temporale compreso tra il 1962 e il 2014, facile immaginare che al di là dei singoli pezzi saranno due i temi a giocare il peso maggiore in questa mostra: primo il fatto di poter saggiare il “value for time” di ogni lavoro, secondo che si produca un codice espressivo estremamente duttile, in cui la storia del contemporaneo e la sua attualità appaiono dinamicamente compenetranti.

Non ci sono fazioni da manuale, né cartellini, contemporaneo è ciò che c’è, che è presente, indifferentemente dalla data di nascita dell’artista e dall’anno di produzione dell’opera. Pertanto avrà la sua coerenza incontrare in un grande salone (una chiosa: non esagerate con le aspettative, l’arredamento è ridotto all’osso, che si tratti di un salone lo indicano esclusivamente il divano centrale e un pouf) il segno di Cy Twombly (altra chiosa: con spessori di olio che denotano quanto madame Barabino i pezzi li sapesse ben scegliere), voltarsi e sullo stesso piano guardare il rigore mai troppo ingessato di Ettore Spalletti, buttare infine l’occhio a terra e trovare il lavoro di un “giovanotto” come Luca Trevisani. Anzi a volte le soddisfazioni critiche più alte, e indicative, le danno proprio artisti e opere anagraficamente affini, ad esempio Plamen Dejanoff posizionato dirimpetto a Trevisani, così vicini e così lontani, entrambi oggettuali pur con tendenze diametralmente opposte, il primo sgargiante e iconico nel suo pop artefatto/anabolizzato, il secondo fragile, aleatorio e puntualmente riflessivo.

“Casa Barabino” offre molte altre opportunità per valutare dinamiche opera/contesto diverse dal solito. Tra queste si segnala il caso di Koo Jeong-A, leggiadra e serafica come non l’avete mai vista con un piccolo acquerello appeso in un angolino della camera da letto, stesso ambiente in cui l’Untitled (tre croci) di Joseph Beuys appeso in cima alla testiera si scopre così accomodante con Ex Rex Hot Hotel di Thomas Schütte steso sul letto. La Serie esotica di Fischli & Weiss nello studio è però qualcosa di più, cinque piccole cartoline distribuite sopra la scrivania, davanti alla finestra aperta sul traffico di Genova, in un giorno qualunque. È tra interno ed esterno che si crea il miglior dialogo possibile, quando un pezzo d’arte contemporanea si sporca le mani ed entra a far parte della vita. Che per una volta non sarà solo quella dei Barabino, ma di chiunque passi di lì. Potendo pure sognare ad occhi aperti, tanto al museo ci penserà sempre un vetro protettivo (che sulla scrivania non manca) a riportarvi alla realtà.
Andrea Rossetti

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