Quest’anno c’è stata, nella programmazione delle esposizioni, una diffusa attenzione per l’arte e la cultura africana, sia primitiva che contemporanea e val la pena tentare di coglierne il senso parlando di alcune di queste mostre.
In Italia, a Milano, la mostra “Africa. Raccontare un mondo”, al PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea, con il Comune di Milano e a cura di Adelina von Fürstenberg e Ginevra Bria, che si è chiusa nello scorso settembre, nelle intenzioni era rivolta soprattutto alle questioni essenziali, politiche, economiche, religiose e di genere che investono il futuro del continente più difficile del nostro pianeta, presentando una trentina di artisti di diverse generazioni, che incarnano e rappresentano oggi la molteplicità dei loro contesti sociali di riferimento.
A Parigi, sullo stesso tema ma diversissime fra loro, in ottobre si sono inaugurate due esposizioni, “Mali Twist” alla Fondation Cartier e “Dada africa” all’Orangerie, dopo che hanno chiuso i battenti sia l’”Afrique des routes” al Musée du quai Branly Jacques Chirac – imperniata sulla descrizione delle vie materiali degli spostamenti e delle comunicazioni, ma anche di quelle immateriali degli scambi culturali, religiosi e linguistici all’interno del grande continente africano – che “Art/Afrique, le nouvel atelier” alla Fondation Louis Vuitton che, in maniera inequivocabile, si è posta nella direzione del promuovere la dimensione del mercato dell’arte per la differente e variegata produzione dei paesi della parte subsahariana del continente africano.
Art/Afrique, le nouvel atelier, vista della mostra, Fondation Louis Vuitton
Art/Afrique, aderendo alla scelta della politica culturale adottata a Parigi di promuovere la conoscenza di collezioni private, ha esposto le opere di artisti di 12 nazionalità, con una consistente coincidenza fra gli artisti scelti nelle mostre italiana e francese, appartenenti alla collezione di ben 12000 opere di arte contemporanea africana dell’uomo d’affari Jean Pigozzi, (l’erede dei produttori della Simca) raccolte dal 1989 al 2009; a queste si affiancavano alcune opere della collezione Vuitton. Ne è emerso un panorama articolato e stimolante della produzione artistica contemporanea del continente africano, con opere talora particolarmente originali e chiaramente connotate, come il bel video del 2011, Other faces di William Kentridge esposto al quai Branly sulla tragica specificità della vicenda dell’apartheid. Alla Fondation Vuitton, fra altre opere più di maniera, nel fantasmagorico percorso espositivo della sezione “Essere là”, spiccava la grande scultura Infantry with beast di un’altra sudafricana, Jane Alexander, forse l’opera più rilevante della mostra: un battaglione di ventisette figure meta uomini metà lycaon pictus – il cosiddetto cane selvaggio africano, nel passato sterminato e oggi specie protetta e in via di estinzione – in marcia su un tappeto rosso verso un cane che li fronteggia. Un’ambigua rappresentazione nella quale coincidono la figura di predatore e di vittima, che crea un’inquietante connessione fra il sistema militare gerarchico e autoritario presente in molti stati e quello del selvatico lycaon.
Le mostre, lette nel loro complesso, hanno evidenziato con chiarezza il grado di consapevolezza, il dinamismo, l’impegno politico e la militanza, soprattutto nella questione delle minoranze, degli artisti africani non solo del Sud Africa.
William Kentridge, Other Faces, 2011
Il 20 ottobre la Fondation Cartier pour l’art contemporain, nella linea di proporre segmenti artistici meno noti e sulla scia dell’interesse suscitato dalla grande mostra “Beautè Congo” nel 2015, ha dedicato una retrospettiva a Malick Sidibé dal titolo “Mali Twist” (a cura di André Magnin, con la collaborazione di Brigitte Ollier) titolo che è una sintesi icastica del contenuto e del senso della mostra e dell’opera del fotografo maliano.
Malick Sidibé (1933-2016), conosciuto come l’œil de Bamako, ha avuto grande successo di pubblico ma anche gli esperti ne hanno riconosciuto il valore assegnandogli i premi della Hasselblad Foundation (2003) e il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia nel 2007.
Le 250 opere, fra fotografie e provini, rappresentano l’intero corpus, a partire dagli scatti dei primi anni ’60 di soggetti disparati, messi in posa su fondali progettati, nel suo studio di Bamako, che è stato ricostruito negli spazi della esposizione, e poi di gruppi ripresi in paesaggi urbani e naturali, nei quali la desolazione del degrado viene annullata dalla gioia di vivere e dall’entusiasmo che, dopo l’indipendenza, pervade un po’ tutti i protagonisti fotografati. Ma la cifra dell’artista è data dalle insuperabili immagini di personaggi coinvolti nel gioco del ballo. Racconta in un intervista Malick: «io assistevo alle loro feste come a una seduta cinematografica o ad uno spettacolo” e “mi spostavo per cogliere le posture migliori cercavo sempre l’occasione di un momento frivolo, un atteggiamento originale o un ragazzo veramente divertente». Così, queste immagini restituiscono il ruolo esplosivo che svolsero la musica e i ritmi di ballo della rivoluzione rock quando proruppe nella società occidentale e identicamente in Africa.
Dada africa, Musee de l’Orangerie
Di altra impostazione è stata l’esposizione “Dada africa”, al Musée de l’Orangerie, che in collaborazione con il museo Rietberg di Zurigo e la Berlinische Galerie ( i curatori sono di tutte le istituzioni coinvolte) per la prima volta viene dedicata al confronto fra le opere dei dadaisti fra i quali Hanna Höch, Jean Arp, Sophie Taeuber-Arp, Marcel Janco, Hugo Ball, Tristan Tzara, Raoul Haussmann, Man Ray e Picabia con le produzioni di altre civiltà lontane, in Africa, Amerindia e Asia.
La rivolta artistica dada nata a Zurigo nel 1916 propugna il rifiuto dei valori tradizionali delle civiltà. Uno sguardo nuovo viene rivolto verso altre realtà lontane, sistemi di pensiero e di creazione diversi, spingendo numerosi artisti d’avanguardia ad appropriarsi dei modelli di creazione artistica provenienti da altre culture, mentre in occidente terre e popoli vengono devastati da una guerra insensata e la Russia vive una altrettanto furibonda guerra civile.
Così l’originalità e l’inventiva delle opere dadaiste e la loro varietà, oltre ai dipinti si ammirano tessuti, grafica, manifesti, collage, pupazzi e marionette, costumi e gioielli, vengono messi in puntuale contrappunto con una selezione di pezzi di rara bellezza, maschere, oggetti d’uso, idoli e statue funerarie, decorazioni di oggetti d’uso di civiltà africane, maori, giapponesi e orientali.
Il raffronto fra il Ritratto di Hanna Hoch di Raul Haussmann del 1915 e la Maschera Makonde della Tanzania oppure l’Adorante di Karl Schmidt-Rottluff del 1917 e il Bastone di danza Tolai Nuova Guinea o ancora il Ritratto di Hans Harp della moglie Sophie Taeuber-Arp accanto alla Boite Azande del Congo, suscitano stupore ma stimolano anche un modo più acuto di leggere i segni della pittura contemporanea.
Afrique des routes, vista della mostra, Musée du quai Branly Jacques Chirac
“Dada africa” si articola in 4 sezioni la prima Dada foyers descrive i diversi centri di formazione del movimento Berlino, Parigi, New York, Zurigo, Colonia, Barcellona e nelle successive Dada galerie, Dada performance e Dada fusion-Post dada vengono presentati la ricostruzione delle serate dada, i film di danza, i documenti sonori e musicali, che si snodano fino agli anni ‘30. In questa documentazione, una curiosità, in particolare per noi, risulta la copertina della Domenica Illustrata del 25 luglio 1920 con l’immagine di una mostra dada, che sottotitola: «Alla soglia della Pazzia. A Berlino i “dadaisti” hanno inaugurato un’esposizione dove si ammirano manichini, statue, quadri e fantocci il cui senso lugubre è soffocato dal grottesco». All’esterno dell’esposizione vengono proposti alcuni lavori degli artisti contemporanei Athi-Patra Ruga sudafricano e Otobong Nkanga nigeriana nei quali il suggerito parallelismo con lo spirito della mostra risulta solo nella caratteristica di ibridazione e nell’assenza di connotazioni di appartenenza, geografica e culturale, delle opere esposte.
Solo un riferimento ma dovuto, considerando il soggetto di questo resoconto, va fatto alla mostra “Picasso primitif”, svoltasi la scorsa primavera al Quai Branly che, con l’obiettivo di individuare i punti di contatto iconografici e i momenti d’incontro fra Picasso e l’arte primitiva, ha proposto anch’essa “incontri ravvicinati” fra le opere dell’artista e i pezzi di arte primitiva con i quali, documentatamente, in un modo o nell’altro era venuto in contatto.
Giancarlo Ferulano