WHITNEY UNMONUMENTAL

di - 9 Marzo 2008
Quando ha iniziato a lavorare alla Biennale del Whitney 2008 con la sua collega Henriette Huldisch e con gli altri consulenti (Thelma Golden, direttore e chief curator dello Studio Museum di Harlem, Bill Horrigan, direttore del Media Arts department del Wexner Center for the Arts dell’Ohio State University, e Linda Norden, curatore e critico)?
Abbiamo iniziato a organizzare la Biennale nel gennaio 2007. Pensando alle proporzioni della mostra fa spavento!

Quali parametri vi siete dati?
Abbiamo incontrato più volte i vari consulenti, in momenti diversi e per intere giornate, e con loro discutevamo le nostre idee, parlavamo di trend, di elementi prevalenti e di come pensavamo di impostare la mostra. Naturalmente non abbiamo iniziato da una tabula rasa. Siamo curatori, il nostro lavoro è vedere arte e prendere appunti. Se fermi un qualsiasi curatore per strada, sono certa che ha in mente una biennale già pronta! Noi abbiamo viaggiato quanto più possibile e trascorso moltissimo tempo negli studi degli artisti. Volevamo arrivare al risultato seguendo un processo deduttivo piuttosto che induttivo. Il vantaggio di vedere così tanti studi in così poco tempo, in diverse parti degli Stati Uniti e del mondo, e poi in maniera così concentrata, è che i punti di contatto tra le diverse forme artistiche saltano veramente agli occhi…

La nozione di American Art pare ancora piuttosto confusa e spesso dà adito a critiche sugli artisti invitati a partecipare. Quale potrebbe esserne una corretta definizione?
Penso che la definizione sia piuttosto vaga, non potrebbe essere altrimenti. Il Whitney Museum fu fondato da Gertrude Vanderbilt in un momento in cui non c’era interesse per l’arte americana, con lo scopo di dare uno spazio agli artisti, generare interesse e mettere insieme una collezione per il museo. Naturalmente, ora non siamo nella stessa situazione e non lo siamo da parecchio: il concetto di American Art è in costante evoluzione, ci si interroga sia all’interno dell’institution che all’esterno. Francamente ne abbiamo discusso molto, anche sulla definizione inerente al Whitney Museum of American art stesso… Noi comunque non abbiamo limitato la ricerca all’interno degli Usa, anche se alla fine la mostra sarà in linea con gli standard della Biennale del Whitney. Abbiamo cercato dove ritenevamo fosse rilevante in questo momento, con un’attenzione particolare ai luoghi dove gli artisti si spostano. Ora c’è una grande mobilità nel mondo dell’arte e ci sono alcune traiettorie particolarmente importanti: ad esempio la costa settentrionale del Pacifico, Vancouver, Seattle, Portland, oppure Los Angeles, il Messico, Berlino…

In cosa si è differenziata la fase di selezione e organizzazione di questa Biennale rispetto a quella del 2004?

In termini concreti, la procedura è stata molto simile ad altre mostre, una ricerca molto, molto approfondita… Poi intense conversazioni con altri curatori: specialmente quando si va fuori dai propri confini, non si può pretendere di essere informati come chi lavora e vive in quella zona. Ad esempio, ci sono città come Los Angeles che conosco molto bene e dove ho molti contatti, ma in altre non saprei dove andare a cercare o cosa vedere! I feedback più interessanti li ho spesso da altri artisti, e questa è forse la pratica emersa più marcatamente in questa Biennale. La mia vita sociale è densamente popolata di artisti. Questa volta, poi, ho anche più chiaro in mente come realizzare strutturalmente la mostra, cioè come applicare e riflettere l’approccio concettuale e curatoriale a ogni livello, dal catalogo ai programmi didattici, fino all’allestimento, che è di solito uno dei nodi più critici.

Stavolta il numero di artisti invitati -ottantuno, per la precisione- è più contenuto…
Il tipo di lavoro che abbiamo scelto si basa molto sul concetto di total practice. Riteniamo che gli artisti oggigiorno lavorino più frequentemente su progetti omnicomprensivi piuttosto che sulla singola opera che scegli e piazzi in mostra. Allora abbiamo cercato di ridurre il numero di artisti per dare un maggiore spazio a ciascuno. A dire il vero, sui vari piani ci sono addirittura solo una cinquantina di artisti. Gli altri lavori o non si prestavano a un allestimento classico o consistono in film e video.

Questa edizione non ha un approccio tematico come quella scorsa, “Day for Night”. Presenterà una panoramica dell’arte contemporanea americana?
È piuttosto insolito avere una Biennale col titolo. “Day for Night” è stata la prima e unica volta che sia mai successo. In senso lato, però, ognuna presenta una tesi. In questa non ci sarà una posizione univoca, tematica, ma ci saranno vari fili conduttori e diverse sensibilità, che noi speriamo affiorino in maniera particolarmente evidente. I fili conduttori non sono lineari, però, ma si intrecciano e si sovrappongono… Infatti, una delle idee presenti è proprio quella di una narrativa frammentaria e stratificata che resiste a un’interpretazione lineare, e anche ricca di contraddizioni.

Può descriverci alcuni trend e pratiche artistiche presenti nella Biennale? Si aspetta che alcune suscitino particolari controversie?

Onestamente non mi interessa provare a indovinare cosa piacerà e cosa verrà criticato… Anche perché di solito è sempre qualcosa che non ti aspetti affatto! Al contrario, i lavori in mostra evocano un senso di anti-monumentalità, rifuggono la spettacolarizzazione e mantengono una chiave di lettura frammentaria, non centralizzata, con dispersione dei punti di vista. Molte opere suscitano un’idea di interruzione, di durata temporale che non consente una comprensione immediata e che le rende impegnative, ma allo stesso tempo esteticamente stimolanti. In generale, c’è una tendenza verso la modestia nei materiali, ad esempio con perdita di interesse in produzioni che siano super-sofisticate, ma senza nessun tipo di junk aesthetic, sia chiaro. Ci sono anche delle rivisitazioni più o meno letterali dell’idea di decadimento e fallimento, sia in termini di sistemi socio-politici che della condizione moderna in se stessa.

L’elemento performativo ha una forte presenza in questa Biennale. Un segno dei tempi?
Ovviamente gli artisti fanno da anni performance o altri tipi di azioni di durata temporale. Ma certamente ora c’è una concentrazione di artisti che lavorano con questa idea di extended practice. Alcuni, ad esempio, saranno rappresentati da opere tradizionali nel museo, ma si “espanderanno” con azioni performative. Una sorta di pratica ramificata che si infiltra in maniera “virale” sotto forma di tecniche e modalità varie. E qui entra in gioco il Park Avenue Armory. L’edificio rappresenta un elemento estremamente strategico e significativo, e per la prima volta ospita tutte queste forme artistiche più effimere sotto uno stesso tetto. È un modo per rendere più comprensibile il nesso concettuale tra le varie forme artistiche in mostra, e per considerarle tutte su un medesimo piano di valore e importanza. L’Armory può ospitare tanti eventi, anche di natura diversa, senza esigere quasi mai la distinzione tra chi è protagonista della performance e lo spettatore. Ci sono installazioni con elementi mobili, interattivi, mutevoli; ci sono workshop nel corso di vari giorni e ci sono eventi serali. Alcuni lavori interagiscono con lo spazio e lo “attivano” in maniera particolare, altri non sono necessariamente nascosti, ma richiedono un certo investimento di tempo per essere apprezzati. Nulla è comunque imponente o spettacolare. Alcuni lavori si focalizzano sull’assenza e utilizzano lo spazio “scultoreamente” invece di conquistarlo. E non dimentichiamo che l’Armory si trova a pochi passi dal Whitney Museum…

Collaborazioni di ogni tipo -quelle tra artisti, curatori e organizzazioni- stanno divenendo strategie sempre più comuni nel mondo dell’arte…
Prima di tutto dobbiamo chiarire cosa si intende con questo termine. Oggigiorno con collaborative non ci riferiamo a un gruppo definito di persone con qualche obbiettivo prestabilito, che perdono la propria identità in nome del gruppo. Oggi le collaborazioni nascono spesso da network sociali e riflettono, ad esempio, modelli mutuati da comunità prese da internet. È un modo molto fluido di comunicare, mantenendo però la propria identità.

In base alla sua esperienza, quali sono i vantaggi e le limitazioni di una mostra co-curata?

Devo dire che la collaborazione con Henriette ha avuto solo vantaggi. Abbiamo interessi piuttosto simili, ma allo stesso tempo diversi a sufficienza. E non abbiamo problemi a confrontarci sui punti di discordia e scambiarci le idee. In due si lavora con più intensità e a contatto più stretto rispetto a quando si è in tre-quattro persone. Francamente credo che curare mostre in collaborazione sia la chiave per il futuro… Se si trova il giusto partner c’è la possibilità di confronto e arricchimento costante, e in due si può elaborare una posizione omogenea e ben articolata.

La Biennale del Whitney non è nuova a collaborazioni con altre organizzazioni. Ricordiamo ad esempio quella con il Public Art Fund per i progetti a Central Park. Come si è sviluppata la collaborazione con il Park Avenue Armory e l’Art Production Fund?
Con l’Art Production Fund la collaborazione è stata molto efficace. Loro hanno il compito di produrre tutti i programmi che si svolgono all’Armory. Hanno molta esperienza e molti strumenti a disposizione, sono stati loro a proporci l’idea! Hanno rispettato appieno la nostra visione curatoriale e gli artisti con cui hanno collaborato. In questo caso, la quantità di eventi su cui stiamo lavorando è davvero incredibile…

Parliamo dei lavori in mostra: quanti sono stati commissionati per l’occasione?
Tantissimi: quelli nel museo sono oltre il 75% (o nuovi di zecca o riconfigurati per i suoi spazi), mentre quelli presentati all’Armory sono tutti nuovi. Penso che comunque questo corrisponda a come lavorano gli artisti oggi, perché non trovo abbia molto senso passare per gli studi e scegliere questo o quel lavoro per poi mostrarli insieme. La selezione pura e semplice è un processo che crea troppa distanza, il lavoro e la sua produzione dovrebbero esser parte integrante del concepimento stesso della mostra e della sua presentazione.

È stato difficile rientrare nel budget?

I budget delle no-profit sono sempre problematici! Quindi, sì, è stato difficile. Forse ora è ancora più complicato a causa dell’ammontare di denaro che viene speso altrove nel mondo dell’arte. La discrepanza è enorme. Per un museo è difficilissimo tenere il passo con gli standard a cui sono abituati gli artisti, con quei livelli di produzione… Una galleria o uno spazio privato possono investire fondi che un museo non può neanche sognare! Questo riflette anche alcuni problemi attuali inerenti alla filantropia. Volere esser coinvolti nell’arte non significa soltanto acquistare un’opera d’arte. Infatti, una grossa parte del nostro lavoro come curatori è far conoscere ai benefattori altri aspetti del mondo dell’arte.

Il museo si è rivolto a sponsor aziendali, privati e galleristi per finanziare la mostra, il catalogo o altri eventi legati alla Biennale?
Certamente. No-profit vuol dire che dobbiamo raccogliere tutti i fondi di cui abbiamo bisogno e quindi ci siamo rivolti a tutti quelli che hai citato e anche alle fondazioni. C’è una sezione intera del museo che lavora solo a quello e sta ancora lavorando per trovare altri fondi. Deutsche Bank è uno degli sponsor principali quest’anno, insieme a Gap.

Gap sembra un abbinamento interessante. È la prima volta che sponsorizza il Whitney Museum?
È sicuramente la prima volta che la sponsorizzazione è di queste proporzioni. I soci fondatori di Gap, Donald e Doris Fisher, hanno una straordinaria collezione d’arte e sostengono molto attivamente tante iniziative. Quando ho iniziato la mia carriera al Whitney non avrei mai pensato che questo tipo di rapporti potesse sfociare in qualcosa di così reciprocamente interessante!

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a cura di micaela giovannotti

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 48. Te l’eri perso? Abbonati!


dal 6 marzo al primo giugno 2008
Whitney Biennial 2008
a cura di Henriette Huldisch e Shamim M. Momin
Whitney Museum of American Art
945 Madison Avenue at 75th Street – New York NY 10021
Orario: mercoledì e giovedì ore 11–18; venerdì ore 13–21; sabato e domenica ore 11–18
Ingresso: intero $ 15; ridotto $ 10; il venerdì ore 18-21 a offerta libera
Catalogo disponibile
Info: tel. +1 800 whitney; www.whitney.org

[exibart]

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