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04
dicembre 2007
ZONA D’ARTE IN SALA
Progetti e iniziative
Più che una fiera delle vanità è stata una fiera delle verità. La 25esima edizione del Torino Film Festival si è conclusa lo scorso sabato 1° dicembre, con la premiazione dei vincitori al cinema Ambrosio. Vincitori selezionati dopo una lunga settimana di kermesse, sotto l’egida e la direzione di Nanni Moretti. Oltre a un notevole successo di pubblico e critica, salutiamo con grande favore una sezione particolare: “la Zona”, dedicata alle sperimentazioni più spinte...
di Ginevra Bria
Ad assegnare i premi di quest’edizione del TFF morettiana -direttore confermato anche per il prossimo anno-, una giuria internazionale presieduta da Piers Handling e composta da Robert Guédiguian, Aki Kaurismäki, Carlo Mazzacurati, Laura Pariani, André Téchiné, Jasmine Trinca. “Tra di noi abbiamo molto litigato”, ha rivelato quest’ultima, “ma va bene così. Vi consiglio di andare a vedere ‘Garage’ e ‘Noise’”.
Proprio Garage dell’irlandese Lenny Abrahamson, che ha vinto il Festival come miglior film, è il racconto di una piccola e immensa realtà contemporanea attraversata dalla vita di un gestore di una stazione di servizio. Questa fiaba, proiettata solo negli ultimi due giorni di Festival, ha ricevuto in premio ben 25mila euro. Mentre il premio speciale della Giuria è andato a The elephant and the sea di Woo Ming Jin (10mila euro), il premio per la miglior Attrice va Joan Chen per The home song stories di Tony Ayres e il premio per il miglior Attore a Kim Kang-Woo per Gyeongui seon / The railroad di Park Heung-sik. Da ricordare, oltre alle presenze importanti di Wim Wenders e Michel Piccoli, anche la giuria che si è occupata della sezione “Italiana Doc”. I membri giudici sono stati Daria Menozzi, Bruno Oliviero e Stefano Savona, e hanno assegnato il premio per il miglior Documentario italiano, in collaborazione con Persol (10mila euro) a La Nación Mapuce di Fausta Quattrini, premio riconosciuto per “il dispositivo cinematografico che aderisce interamente al suo soggetto e per aver saputo rivelare attraverso la storia del popolo Mapuce come ogni storia particolare, colta nei suoi momenti chiave, possa riguardare tutta l’umanità nelle sue inaspettate potenzialità”. Mentre alla Comencini con In fabbrica è stato assegnato il premio Cipputi.
A oggi sembra incredibile, ma un anno fa la stessa rassegna torinese affrontava una sfida per sopravvivere alla notorietà nella dimensione degli eventi cinematografici. Il TFF, schiacciato dal divismo delle passerelle veneziane, si trovava anche a dover affrontare una sempre maggior presa di potere da parte della Festa del Cinema di Roma. Torino quindi, come dai dettami della tradizione sabauda, ha dovuto superare, non senza difficoltà, la poca visibilità mediatica, conseguenza di un atteggiamento austero e distaccato verso il cinefilo comune. Atteggiamento castigato, che sembrava creato apposta per dare risalto ai contenuti piuttosto che alle forme estetiche. Punto di vista, quest’ultimo, che provocava una diversità di pubblico e una presenza di intenditori tali da legittimare la certezza superiore di una qualsivoglia qualità artistica. Col fatto che le luci della ribalta erano per nulla attraversate da divi e divette, il TFF non si è mai preoccupato di sfoderare un vero e proprio tappeto rosso, ai bordi del quale, invece, il pubblico giubilante di Roma e Venezia ha sempre visto sfilare bellimbusti di ogni sorta.
Nell’edizione 2007, anche se una certa serietà intellettuale non è mancata, la presenza costante e “rilassante” del personaggio-non-personaggio Moretti è servita ad attirare l’80% di pubblico in più, seguito da una crescita del 47% di giornalisti accreditati. Il programma, in effetti, è parso quest’anno più aperto e variegato, meno di ricerca estrema, evitando di diventare quell’antro solipsistico fatto per solo per cinefili puri e duri. In verità, come afferma Moretti, “non è stata una scelta programmatica, non volevamo andare incontro a parte del pubblico, né qualcuno mi ha suggerito qualcosa. Ho seguito i miei gusti. Trent’anni fa forse mi costringevo a farmi piacere anche film che non amavo, oggi non più”.
Questa scelta, dagli intenti non propagandistici né demagogici, bada a presentare al pubblico delle sale la restituzione spuria del cinema messo di fronte a se stesso. Ed è per questo che, molto curata e di netta avvertenza avanguardista, è da sottolineare la presenza al TFF della sezione non competitiva dal titolo “La zona”. All’interno di quest’area, la realtà dell’immagine, cioè quello che è vero, quello che non è falso e quel che esiste sul serio vengono mesciti assieme. La reazione dà vita a un composto lisergico che purifica e raggiunge lo sguardo. Tanto di chi guarda quanto di chi è guardato, attraverso lo schermo. Ne “La zona” non si fa cinema che cerca storie a tutti costi, ma si fanno film, cortometraggi e lungometraggi che portano con sé la predilezione della difficoltà. Quell’estetica della narrazione che racchiude tanto cinema quanto video d’arte, al limite tra complicazioni geometriche, pulsazioni urbane, distorsioni digitali e ambientazioni coreografiche.
Dunque, tra le ingenuità della diegesi aperta e gli intrecci borderline della ricerca, sfilano esperienze artistiche sospese tra visioni e illusioni. E allora ci si ritrova in compagnia di due grandi interlocutori dell’uomo rivisitato dalla storia quali Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, che offrono come evento d’apertura della sezione il loro nuovo lavoro, Ghiro Ghiro Tondo. In questo filmato, la macchina da presa diventa un archivio d’immagini che punta gli occhi vigili, quelli di una infanzia disillusa, su una vecchia collezione di giochi confezionati tra le due guerre, nel cuore di un’Europa belligerante. Altro tempo, quello del maestro triste, l’ungherese Béla Tarr, calato nell’umidità portuale di The Man From London, noir tratto da un romanzo di Simenon, o dello spagnolo Pablo Garcia Perez de Lara, che attinge con poesia alla lezione di Joaquim Jordà in Balboreta, mariposa, papallona. O, ancora, ci si ritrova ipnotizzati dalle volte-in-una-sola-volta delle allucinazioni digitalizzate di Razzle Dazzle-The Lost World dall’americano Ken Jacobs, lungometraggio afono che si spinge fino alla fantasmagoria collettiva ripetendo e distorcendo un frammento girato da Thomas Edison a inizio Novecento.
Il digitale, del resto, è la costante pionieristica più potente de “La Zona”, che propone anche i tre nuovi lavori dell’ungherese Harun Farocki, del portoghese Pedro Costa e del francese Eugène Green, realizzati nell’ambito del “Digital Project 2007” promosso dal Festival sudcoreano di Jeonju e raccolti nel lungometraggio Memories. Ma non mancano le stranezze inappellabili, girate da autori del cinema filippino (Autohystoria di Raya Martin e Ultimo di Khavn De La Cruz, entrambi impegnati a raccontare momenti fondamentali della rivoluzione di fine Ottocento) a quello russo (i documentari Moscow di Bakur Bakuradze e Dmitriy Mamuliya, Boys di Valeria Gui Germanica e On the Third Planet From the Sun di Pavel Medvedev); dal cinema cinese, (Burning di Bai Fujian, sulla vita di un’affermata fotografa, e la piccola personale dell’artista Sun Xun, che lavora sul cinema d’animazione per riscrivere la storia del suo Paese) a quello delle due Americhe (i cortometraggi statunitensi quali il ben diretto The Replacement Child di Justin Lerner e il documentario poetico The Second Line di John Magary; i messicani Sopa de pescado di Nuria Ibañez, Cocó y Nicó di Alejandro Cantù, Bardo di Gabriel Mariño e il mediometraggio argentino Puna di Khourian Hernàn).
Da Israele proviene invece l’orrore inverso di due film-maker come Amram Jacoby, autore di The Woman of Thousand Voices, riflessione sull’arte e sulla parola come purificazione dalla paura e dal dolore, e Ran Slavin, videoartista multimediale di Gerusalemme, al quale è dedicata una personale.
Tutto questo senza trascurare il cinema italiano di ricerca, che vede allineati uno accanto all’altro i nuovi lavori dei torinesi Armando Ceste (Amoremorte) e Luca Pastore (Ganci), del modenese Olivo Barbieri (Seascape #1, China Shenzhen 05), del leccese Carlo Michele Schirinzi (Oligarchico) e del gruppo catanese Cane CapoVolto, con il mediometraggio Uomo-Massa.
Proprio Garage dell’irlandese Lenny Abrahamson, che ha vinto il Festival come miglior film, è il racconto di una piccola e immensa realtà contemporanea attraversata dalla vita di un gestore di una stazione di servizio. Questa fiaba, proiettata solo negli ultimi due giorni di Festival, ha ricevuto in premio ben 25mila euro. Mentre il premio speciale della Giuria è andato a The elephant and the sea di Woo Ming Jin (10mila euro), il premio per la miglior Attrice va Joan Chen per The home song stories di Tony Ayres e il premio per il miglior Attore a Kim Kang-Woo per Gyeongui seon / The railroad di Park Heung-sik. Da ricordare, oltre alle presenze importanti di Wim Wenders e Michel Piccoli, anche la giuria che si è occupata della sezione “Italiana Doc”. I membri giudici sono stati Daria Menozzi, Bruno Oliviero e Stefano Savona, e hanno assegnato il premio per il miglior Documentario italiano, in collaborazione con Persol (10mila euro) a La Nación Mapuce di Fausta Quattrini, premio riconosciuto per “il dispositivo cinematografico che aderisce interamente al suo soggetto e per aver saputo rivelare attraverso la storia del popolo Mapuce come ogni storia particolare, colta nei suoi momenti chiave, possa riguardare tutta l’umanità nelle sue inaspettate potenzialità”. Mentre alla Comencini con In fabbrica è stato assegnato il premio Cipputi.
A oggi sembra incredibile, ma un anno fa la stessa rassegna torinese affrontava una sfida per sopravvivere alla notorietà nella dimensione degli eventi cinematografici. Il TFF, schiacciato dal divismo delle passerelle veneziane, si trovava anche a dover affrontare una sempre maggior presa di potere da parte della Festa del Cinema di Roma. Torino quindi, come dai dettami della tradizione sabauda, ha dovuto superare, non senza difficoltà, la poca visibilità mediatica, conseguenza di un atteggiamento austero e distaccato verso il cinefilo comune. Atteggiamento castigato, che sembrava creato apposta per dare risalto ai contenuti piuttosto che alle forme estetiche. Punto di vista, quest’ultimo, che provocava una diversità di pubblico e una presenza di intenditori tali da legittimare la certezza superiore di una qualsivoglia qualità artistica. Col fatto che le luci della ribalta erano per nulla attraversate da divi e divette, il TFF non si è mai preoccupato di sfoderare un vero e proprio tappeto rosso, ai bordi del quale, invece, il pubblico giubilante di Roma e Venezia ha sempre visto sfilare bellimbusti di ogni sorta.
Nell’edizione 2007, anche se una certa serietà intellettuale non è mancata, la presenza costante e “rilassante” del personaggio-non-personaggio Moretti è servita ad attirare l’80% di pubblico in più, seguito da una crescita del 47% di giornalisti accreditati. Il programma, in effetti, è parso quest’anno più aperto e variegato, meno di ricerca estrema, evitando di diventare quell’antro solipsistico fatto per solo per cinefili puri e duri. In verità, come afferma Moretti, “non è stata una scelta programmatica, non volevamo andare incontro a parte del pubblico, né qualcuno mi ha suggerito qualcosa. Ho seguito i miei gusti. Trent’anni fa forse mi costringevo a farmi piacere anche film che non amavo, oggi non più”.
Questa scelta, dagli intenti non propagandistici né demagogici, bada a presentare al pubblico delle sale la restituzione spuria del cinema messo di fronte a se stesso. Ed è per questo che, molto curata e di netta avvertenza avanguardista, è da sottolineare la presenza al TFF della sezione non competitiva dal titolo “La zona”. All’interno di quest’area, la realtà dell’immagine, cioè quello che è vero, quello che non è falso e quel che esiste sul serio vengono mesciti assieme. La reazione dà vita a un composto lisergico che purifica e raggiunge lo sguardo. Tanto di chi guarda quanto di chi è guardato, attraverso lo schermo. Ne “La zona” non si fa cinema che cerca storie a tutti costi, ma si fanno film, cortometraggi e lungometraggi che portano con sé la predilezione della difficoltà. Quell’estetica della narrazione che racchiude tanto cinema quanto video d’arte, al limite tra complicazioni geometriche, pulsazioni urbane, distorsioni digitali e ambientazioni coreografiche.
Dunque, tra le ingenuità della diegesi aperta e gli intrecci borderline della ricerca, sfilano esperienze artistiche sospese tra visioni e illusioni. E allora ci si ritrova in compagnia di due grandi interlocutori dell’uomo rivisitato dalla storia quali Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, che offrono come evento d’apertura della sezione il loro nuovo lavoro, Ghiro Ghiro Tondo. In questo filmato, la macchina da presa diventa un archivio d’immagini che punta gli occhi vigili, quelli di una infanzia disillusa, su una vecchia collezione di giochi confezionati tra le due guerre, nel cuore di un’Europa belligerante. Altro tempo, quello del maestro triste, l’ungherese Béla Tarr, calato nell’umidità portuale di The Man From London, noir tratto da un romanzo di Simenon, o dello spagnolo Pablo Garcia Perez de Lara, che attinge con poesia alla lezione di Joaquim Jordà in Balboreta, mariposa, papallona. O, ancora, ci si ritrova ipnotizzati dalle volte-in-una-sola-volta delle allucinazioni digitalizzate di Razzle Dazzle-The Lost World dall’americano Ken Jacobs, lungometraggio afono che si spinge fino alla fantasmagoria collettiva ripetendo e distorcendo un frammento girato da Thomas Edison a inizio Novecento.
Il digitale, del resto, è la costante pionieristica più potente de “La Zona”, che propone anche i tre nuovi lavori dell’ungherese Harun Farocki, del portoghese Pedro Costa e del francese Eugène Green, realizzati nell’ambito del “Digital Project 2007” promosso dal Festival sudcoreano di Jeonju e raccolti nel lungometraggio Memories. Ma non mancano le stranezze inappellabili, girate da autori del cinema filippino (Autohystoria di Raya Martin e Ultimo di Khavn De La Cruz, entrambi impegnati a raccontare momenti fondamentali della rivoluzione di fine Ottocento) a quello russo (i documentari Moscow di Bakur Bakuradze e Dmitriy Mamuliya, Boys di Valeria Gui Germanica e On the Third Planet From the Sun di Pavel Medvedev); dal cinema cinese, (Burning di Bai Fujian, sulla vita di un’affermata fotografa, e la piccola personale dell’artista Sun Xun, che lavora sul cinema d’animazione per riscrivere la storia del suo Paese) a quello delle due Americhe (i cortometraggi statunitensi quali il ben diretto The Replacement Child di Justin Lerner e il documentario poetico The Second Line di John Magary; i messicani Sopa de pescado di Nuria Ibañez, Cocó y Nicó di Alejandro Cantù, Bardo di Gabriel Mariño e il mediometraggio argentino Puna di Khourian Hernàn).
Da Israele proviene invece l’orrore inverso di due film-maker come Amram Jacoby, autore di The Woman of Thousand Voices, riflessione sull’arte e sulla parola come purificazione dalla paura e dal dolore, e Ran Slavin, videoartista multimediale di Gerusalemme, al quale è dedicata una personale.
Tutto questo senza trascurare il cinema italiano di ricerca, che vede allineati uno accanto all’altro i nuovi lavori dei torinesi Armando Ceste (Amoremorte) e Luca Pastore (Ganci), del modenese Olivo Barbieri (Seascape #1, China Shenzhen 05), del leccese Carlo Michele Schirinzi (Oligarchico) e del gruppo catanese Cane CapoVolto, con il mediometraggio Uomo-Massa.
ginevra bria
*foto in alto: “The Replacement Child” di Justin Lerner (Usa, 2007)
dal 23 novembre al primo dicembre 2007
TFF – Torino Film Festival 2007
Torino, sedi varie
Info: tel. +39 0118138811; fax +39 0118138890; info@torinofilmfest.org; www.torinofilmfest.org
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