Un giovane dai boccoli cesellati lungo le spalle, un corpo dall’equilibrio perfetto nella muscolatura e nella quiete della posa. Chi può mai pensare che questa scultura in bronzo del I secolo a.C., adesso intatta, sia stata paracadutata a Berlino come omaggio al maresciallo della Divisione Hermann Göring? E che la stessa sorte sia capitata alla timida
Antea del
Parmigianino, oggi nel museo napoletano di Capodimonte, ma recuperata nella miniera di sale di Alt-Ausée dagli Alleati?
Non di soli scempi e trafugamenti effettuati durante la Seconda guerra mondiale dai nazisti tratta l’esposizione allestita al secondo ordine dell’Anfiteatro Flavio, ma anche di fortunati recuperi di opere rimaste in Italia grazie all’intervento delle leggi di tutela e ai nuovi dialoghi istituiti fra lo Stato e i musei stranieri.
Per celebrare una storia antica, quella della presa di coscienza del valore delle opere d’arte come elemento unitario dell’identità nazionale e come patrimonio culturale, è stato costituito il Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario del primo regolamento di tutela che, nel giro di una sessantina di statue, frammenti di rilievi e pannelli con titoli di giornali e foto d’epoca (provenienti dalla fototeca dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte), ha tracciato il percorso dalle origini della tutela dei beni culturali fino ai provvedimenti attuali.
La prima legge organica del Regno d’Italia, datata 1909, arriva in realtà dopo che, con la formulazione del Catalogo dei beni mobili, si avverte l’esigenza di proteggere anche quelli privati, perché in caso di vendita da parte del proprietario lo Stato ha di diritto la precedenza sull’intervento di acquisto. F
osse esistita durante i famosi prelievi di Napoleone, la
Venere de’ Medici forse non avrebbe fatto una puntatina al Louvre prima che l’intervento di
Antonio Canova, mandato dallo Stato Pontificio come ambasciatore nel 1815, la riportasse nel suo luogo attuale, gli Uffizi di Firenze.
Molte opere, infatti, sono state trafugate come bottino di guerra durante le campagne militari francesi e stessa sorte di fuga all’estero hanno subito quei dipinti che l’aristocrazia decaduta nostrana dovette vendere per colmare i debiti. A Roma, dove questo genere di esportazioni era all’ordine del giorno, si formulano due editti – il Doria Pamphili nel 1802 e il Pacca nel ’20 – per preservare anche i reperti archeologici che in quegli anni sistematicamente si recuperavano dalle viscere del terreno.
L’esportazione illecita avviene anche tra una parte e l’altra dello stivale, come accade a Johann W. Goethe quando forse inveì contro tutto il Parnaso vedendo la capricciosa
Ninfa dalla veste svolazzante in marmo (II secolo d.C.), passata dal cortile di palazzo Carafa di Napoli al museo Pio Clementino romano dopo aver rifiutato di acquistarla sottobanco. Alcune metope dei templi siciliani di Selinunte vennero invece bloccate prima di entrare nelle raccolte del British Museum dopo esser state rinvenute negli scavi illegali di due architetti inglesi nel 1823. Situazioni oggi non più possibili, grazie all’articolo 9 della Costituzione, alle due leggi del 1939 che tutelano i beni artistici e il paesaggio e che sono confluite – con aggiornamenti e modifiche – nel Codice dei beni Culturali e del Paesaggio del 2004. Così infatti se l’Italia fascista ha preso obelischi e statue, adesso restituisce la
Venere di Cirene alla Libia, ottiene il
Cratere di Euphronios dal Metropolitan di New York in un complesso dialogo affinché in questo “
periodo storico governato dall’utilitarismo e mercificazione occorre ribadire che ci sia educazione al riconoscimento del suo alto interesse pubblico”.