Con una frase di Marx, Nicolas Bourriaud e Paolo Falcone introducevano il tema
Alterated States nella passata edizione di Fuoriuso:
“La realtà non è altro che il risultato transitorio di ciò che noi facciamo insieme”. Proprio da Fuoriuso la galleria di Cesare Manzo arruola
Justin Lowe (Dayton, 1976). La citazione marxiana si rende allora necessaria per parlare dell’opera realizzata in situ.
Lowe stravolge l’architettura originale della galleria: innalza al centro della prima sala un corridoio, che ne ingloba l’entrata. E si avvale della distorsione della stanza di Ames, forzando il visitatore a provare empiricamente l’inganno percettivo: il corridoio si restringe e intrappola chi lo percorre. Gioca con l’ottica razionale, mettendo alla prova le teorie che giudicano illusoria ogni fede nell’oggettività del reale. Per far ciò, fa propria la cultura psichedelica degli anni ’60.
Ne imita lo stile pur evocando, per due volte, un
Etant Donné duchampiano, invitando prima a guardar dentro il buco della serratura e poi a osservare una stanza fantasma attraverso fori praticati all’altezza degli occhi dell’uomo ritratto in una fotografia.
Lowe racconta il suo viaggio in Marocco, perché il corridoio è rivestito con una carta decorata che ne ricorda i motivi tipici; e lo filtra attraverso le reminescenze cinematografiche perché, come in un set, mostra l’ultima scena di un ipotetico film di fantascienza in cui il personaggio, uno sciamano, si è sciolto in un cumulo di sabbia e segatura, lasciando ai posteri il solo abito cerimoniale. Un viaggio nel ricordo personale di un amico, il cui padre rivive nei filmati amatoriali trovati anni dopo la sua morte, ora proiettati nel buio della terza sala, a cui si accede solo facendo coincidere il proprio sguardo con quello del personaggio ritratto nella foto suddetta, per l’appunto il padre. I nostri occhi, attraverso i fori praticati sulla parete, ci introducono nella memoria familiare, quasi stessimo proiettando il video.
Uno stato precario dell’allestimento, nonostante l’intenzione “allucinatoria”, mostra la predilezione di Lowe per gli spazi materialmente presenti. Segatura, polvere, cavi in vista, pareti letteralmente aperte contraddicono una piena adesione a un disorientamento visionario a cui aspirerebbe. Anche sugli ultimi collage agisce su locandine del passato. La sua pratica, affine per certi versi a quella di
Rotella, è tuttavia meno pulita, e forse non premia del tutto la disposizione a terra, soffocata dalla struttura imponente della prima opera “a corridoio”.
L’onirico di Lowe è costruito sui miti e sugli stili di quello stato psicotico oggettivato dai resoconti mediatici, da una cultura di massa e dalla moda dell’epoca. La galleria si annulla nelle mani del singolo artista che, seppure sembra trovare scomoda ogni limitazione, di luogo o di mezzo, in quest’occasione non adatta del tutto la celebrazione dell’elasticità e della libertà della psichedelia anni ’60 alla forzatura che invece opera sulla galleria stessa. Rendendo così difficile trarne una visione fluida.