In attesa dell’apertura definitiva dei nuovi spazi del Macro, continua il turbinìo di nuove gallerie che inaugurano nelle sue vicinanze, tanto che pare opportuno parlare ormai di un vero e proprio distretto culturale intorno al museo capitolino. In questa tendenza rientra l’inaugurazione dell’attività della galleria Segni Mutanti, che esordisce con una mostra curata da Lorenzo Canova. Il titolo della mostra,
Nove, ispirato a un numero di antica valenza simbolica, corrisponde al numero di artisti inseriti in questo primo evento espositivo, raggruppati intorno all’utilizzo prevalente della pittura e della scultura come mezzi espressivi, ma senza dimenticare tuttavia le altre tecniche.
Se la firma del manifesto “Forma 1” dette luogo a un gruppo di pittori marxisti e formalisti, o se la Scuola di San Lorenzo ha riunito diversi artisti che condividevano lo stesso spazio di lavoro -per citare soltanto un paio di esempi-, l’intento del curatore di dare vita all’ennesimo gruppo romano, basandosi sull’argomento generazionale o per i procedimenti genericamente impiegati, diventa tutt’altro che spontaneo. Così, se il principio teorico iniziale poteva sembrare molto interessante, il risultato è che lo spazio della galleria diventa un’esibizione di numerosi lavori che stentano a trovare validi vincoli estetici o concettuali. E, in questa prospettiva, la mostra lascia un’impressione eccessivamente eterogenea e con un valore, purtroppo, sostanzialmente decorativo.
Davanti a una visione d’insieme, lo spettatore deve interrogarsi in modo particolare su quale vincolo possa legare il pungente intimismo di
Angelo Bellobono, la connessione tra pittura e mondo onirico di
Francesco Cervelli e l’enigmatica e intensa relazione dell’uomo con il contesto urbano di
Fabrice di Nola con gli altri artisti. L’inclusione nella mostra della ricerca eterogenea di
Gisella Pietrosanti, dei ricordi di
Emilio Leofreddi, del forte contrasto di colori nelle figure di
Adriano Nardi e dell’ambiguità di
Alessandro CannistrĂ o di
David Fagioli evidenzia una scelta alquanto artificiosa, che appare lontana dalla coerenza e soprattutto dalla profonditĂ degli altri artisti.
In questo senso, il nove, considerato come l’ultima delle cifre, esprime la fine di un ciclo e il compimento di un corso, ma anche il simbolo della rinascita in un nuovo ciclo vitale. Attenendosi a questa valenza atavica, diventa forse basilare la necessità di essere pazienti, nell’attesa di un nuovo ciclo in cui abbia origine una vera e propria nuova scuola romana. Veramente compatta e in grado di competere, ma soprattutto di superare quelle del passato.
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Garcia, di fronte a complessità molto differenti in opere "concrete" concepite comunque quasi tutte come "quadro", pare vacillare. Confonde la profondità della rappresentazione, con la profondità dell'opera (...) che unisce realmente il lavoro di ricerca di questi artisti, uniti fuori da ogni intento di definirsi come nuova scuola, sopratutto con provinciali e accademici epiteti localistici. Insomma la sua pare una lettura frettolosa e superficiale, tanto che ad esempio ha dimenticato un'artista presente in mostra: Stefania Fabrizi. Importante è che verificando altre recensioni su alcuni artisti in mostra, con pareri discordanti, nel virtuosissimo ampio numero di recensori su questo sito si dimostri la democraticità intellettuale di uno strumento come Exibart. Qualità presente credo anche nell'intento del curatore della mostra nel proporre un insieme di visioni differenti, con una modalità "diversamente" democratica, che dimostra come qui non ci si "curi" minimamente di portare altra acqua allo "status quo" contemporaneo.
Comunque nessuno di noi e per primo Lorenzo Canova, ha mai pensato a un gruppo o scuola.Io consiglierei di fare un salto all'Università di Campobasso per scoprire un piccolo Museo di ateneo che è un gioiello.Questo è un fatto,è lavoro..