Quieta e disinvolta, leggiadra e sensuale; bella come una Dea e fiera, come una Bonaparte. È
Paolina Borghese come Venere Vincitrice, la giovane sorella di Napoleone resa immortale nella sua bellezza da
Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venezia, 1822), distesa sulla sua
dormeuse nella già splendida cornice della Galleria Borghese: “
un Paradiso”, come la definiva lo stesso Canova nei suoi
Quaderni di viaggio. Una serie di sculture che si affiancano con armonia alle opere di
Bernini, altro
genius loci della Galleria, offrendo un confronto irripetibile fra i due scultori, accomunati dalla minuziosa lavorazione finale delle superfici e da una continua ricerca tecnica e del gusto antico nelle loro creazioni. E quella “Venere Borghese”, adagiata in una stanza propria, sembra vivere nella sua immobilità, con il marmo bianco, tipico dello scultore veneto, che diventa “vera carne”.
Nella mostra, tutta la grazia e la sensualità dell’opera di Canova si coglie già all’ingresso, dove
Le Tre Grazie fanno strada al pubblico: l’opera forse più emblematica dell’artista, tanto da essere ritenuto il suo più grande capolavoro. Non soltanto per le qualità artistiche dell’opera, quanto per l’emozione suscitata dalla visione delle tre figure femminili a grandezza naturale, ricavate da un unico blocco di marmo, dove Canova “creatore consapevole” individua un linguaggio completamente nuovo per l’arte.
Nelle sue creazioni non esistono un davanti o un dietro: le statue possono (e devono) osservarsi a tutto tondo per coglierne il legame con lo spazio. E difficile diventa resistere alla tentazione di sfiorare quella “carne” bianca, resa splendida e all’apparenza soffice dal trattamento della superficie, in cui la lucidatura del marmo riesce a rendere l’effetto dei chiaroscuri nella pittura.
Ma le sue opere erano una vera sfida proprio alla pittura: obiettivo che egli stesso spiegava per la statua di Paolina Borghese, prendendo spunto per il suo soggetto di Venere dormiente da due celebri dipinti di
Giorgione e
Tiziano. Del resto, Canova poteva vantare anche una produzione pittorica. Modesta nel numero di tele ma non nei contenuti, seppur di qualità non paragonabile a quella delle sue sculture. E nell’itinerario proposto scorrono, oltre a una serie di schizzi e bozzetti che produceva con rigore durante la fase preparatoria di ogni scultura, anche qualche dipinto, in cui si coglie la sua idea di bellezza universale. Bellezza che però esprime, rasentando la perfezione, con le sculture: perfette a tal punto che lo stesso scultore si sentiva costretto a intaccarle con qualche difetto. Come nella
Testa di Elena, in cui inserisce un leggero incavo nella pupilla dell’occhio sinistro, “
per equilibrare e aggraziare il volto perfetto”.
Il resto della mostra porta all’immersione totale nell’opera canoviana: da
Apollo in terracotta, prima opera realizzata da Canova ancora giovanissimo, ai quattro
Amorini (per la prima volta esposti insieme), al più celebre
Amore e Psiche. Il lavoro finito, svelato dai meccanismi della sua produzione: dagli studi su carta, con tanto di proporzioni e calcoli, alle statue in gesso che precedevano tutte le sue grandi opere in marmo.
Così, tra le stanze della Galleria, spunta anche la gemella in gesso di Paolina Borghese, in cui sono ancora visibili i
répère, i chiodini piantati sulla statua preliminare, utilizzati per mantenere le proporzioni. Come se Canova fosse tornato a Villa Borghese, per creare ancora.