Il deserto, immagine arida e luminosa, è la faglia, o il foglio bianco su cui Jonathan Monk torna a cercare Alighiero Boetti. Tabula rasa, cielo infinito dove forse come polvere si aggira un fantasma. Nel libro fondamentale di Anne Marie Sauzeau -autrice appunto di Alighiero e Boetti. Shaman / Showman– si racconta come Boetti avesse comandato di disperdere le sue ceneri in Afghanistan, sulle acque dei laghi di Bandi A Mir. La storia è arcinota, nel maggio del 1971, l’artista incallito viaggiatore scopre il paese asiatico, se ne innamora, ne fa il centro di una vita seconda e il luogo magico che crea le sue opere. Le ricamatrici afghane, con la loro mitologica e rituale pazienza, rendono per sempre umane le proposizioni logiche dell’arte allora in voga. La poesia degli arazzi recapitati a Roma dalle terre lontane è la stessa di Alternando da uno cento, l’intrusione di un tempo infinito e variabile nel programma esatto del suo svolgersi (icona-mandala replicabile ancora e ancora, fino alla morte del progettista). In quei luoghi Boetti torna per lunghe settimane almeno due volte l’anno, apre a Kabul un albergo, in cui pare abbiano soggiornato Philip Dick e innumerevoli fumatori d’oppio. Lì è folgorato dall’idea che ogni uomo si specchi in una copia frontale che non necessariamente lo rappresenta: camminando all’indietro, senza volgere le spalle agli enormi Buddha di Bamyan, precipita in una casa da the, e sulle pareti del povero edificio scopre miseri ritagli di riviste.
Oggi i colossi non ci sono più, noi sappiamo cosa li ha distrutti, ma Jonathan Monk ne fa discretamente il centro di un’ambigua istantanea, terribilmente malinconica. I Buddha sono diventati un’impronta, il corto circuito tra quel paesaggio immoto e l’eterno ritorno dell’immaginazione post-moderna: qualcuno ha disintegrato per noi l’ultima evidenza di un passaggio intermedio tra un livello ctonio e la ramificazione di ipotesi e storie.
In mostra sono esposte trentadue fotografie di piccolo formato e due film di tre minuti in 16 mm che Monk ha commissionato a un operatore afgano (Mustafa Sahizbada), e due stampe originali dell’One Hotel, l’albergo aperto a Kabul da “Alì Ghiero”. Le fotografie narrano insieme il viaggio in macchina verso i laghi in cui Boetti avrebbe voluto essere sepolto e la realtà/natura/attualità di una civiltà antichissima sgretolata dalla guerra. I film, proiettati su sbilenchi schermi di legno, restituiscono l’immagine speranzosa e ironica di una superficie che riflette uno spazio e un tempo orfani (tomba?) dell’artista (i laghi e le montagne che infine non hanno accolto i resti di Boetti). Monk è il sesto artista inglese invitato ad esporre nell’ambito del progetto Viva Roma! del Contemporary Arts Programme di The British School; ha creato un piccolo percorso toccante per un senso d’attesa e di effimera poesia.
francesca zanza
mostra visitata il 15 febbraio 2005
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