Chiara Scarfò (Genova, 1977) si affaccia sul panorama romano con la personale
Table, ospitata nelle sale della Galleria Ingresso Pericoloso.
Table come simbolo del passato e volontà di lasciarselo alle spalle;
Table come strumento utile a ricordare un suono stridente e fastidioso, quello prodotto dalle molle del tavolo della cucina che, negli anni ’70, scandiva la quotidianità dell’artista ligure.
Di stanza in stanza si scoprono tutti gli elementi (solidi e sonori) che hanno fatto parte di quel piccolo, irrinunciabile pezzo di vita. Con un atto irrispettoso, all’apparenza violento ma intimamente pieno d’amore, l’artista ricrea l’ambiente familiare attraverso la riproposizione degli stessi mobili fra i quali è cresciuta, anche se qui vengono svuotati – di materia e di senso -, mostrandone solo lo scheletro in metallo.
Proprio come appare nell’installazione intitolata
Cucina, che occupa un intero ambiente: le leggere sagome di squadrati parallelepipedi suggeriscono una pesantezza capace di ancorare tutto al suolo. Sono l’immagine di simulacri, ombre, visioni, inquietudini, che arrivano però con la forza di cui solo ciò ch’è reale è dotato. Il tutto mentre in sottofondo riecheggia la composizione audio
E io non mangio. E mi spoglio nuda, le cui parole sono reiterate fin quasi a diventare indistinguibili. “
L’emancipazione è nell’accettare la verità”, dice l’artista. Impossibile dunque non guardarsi dentro, con un misto di paura e coraggio.
Non bisogna tuttavia lasciarsi ingannare da questa mostra che, nonostante sia dichiaratamente autobiografica, riesce con prepotenza a creare un canale di comunicazione con la società attuale, anch’essa colpevole di eccessivi silenzi e di dannosa superficialità. In quest’ottica assumono ancor più valore le foto e i video (come
Moan, in cui il viso ravvicinato dell’artista è leggiadramente sommerso da un sottile velo d’acqua, che bagna gli occhi aperti e macchiati di trucco nero e la bocca che anela alla parola), in cui si autoritrae in pose che segnano un percorso mentale oltre che fisico, coadiuvato da un’unica, dissonante litania di musica e rumori.
Le immagini (alcune mosse, quasi a segnare il prezioso ruolo del “passaggio”) offrono tutti i toni del bianco e del nero, come se ci si potesse spostare in un istante dall’abisso scuro dell’impotenza alla luce della conoscenza. Del resto, i meandri della psiche hanno da sempre affascinato Scarfò, abituata a esibirsi anche in luoghi insoliti e desolati ma altamente rappresentativi come gli ex manicomi di Cogoleto e Quarto.