“Né creda niuno che Jacopo sia da biasimare, perché egli imitasse Alberto Duro nelle invenzioni, perciochè questo non è errore, e l’hanno fatto e fanno continuamente molti pittori.” È nelle parole del Vasari, dalla vita del Pontormo, che si può riassumere in parte il senso di questa mostra, che vuole indagare i rapporti tra Albrecht Dürer (Norimberga 1471-1528) e l’Italia, le reciproche ispirazioni, gli echi, i rimandi nel tempo.
Quasi duecento le opere esposte tra dipinti, acquerelli, disegni e stampe del pittore di Norimberga e di artisti italiani. La mostra è organizzata in modo molto razionale, divisa in due parti corrispondenti ai due piani dello spazio espositivo. Il primo piano racconta le influenze che artisti italiani ebbero su Dürer, il secondo l’inverso. Cinque sale e cinque temi per la prima sezione della mostra: L’arte del ritratto; La scoperta della figura umana attraverso l’arte antica; Lo studio della natura, delle piante, degli animali e del paesaggio; La pittura religiosa e I lavori per l’Imperatore Massimiliano I.
In questa prima parte del percorso stupiscono non tanto i ritratti o i dipinti molto noti come l’Adorazione dei Magi o Gesù tra i dottori, e nemmeno la produzione grafica che lo ha reso ancor più celebre. Quel che veramente emerge è la qualità, forse meno conosciuta, di Dürer come acquerellista. Non solo nei paesaggi descritti con l’esattezza di un botanico, quanto in opere come Iris azzurro ad esempio. Un semplice fiore eppure una straordinaria fattura, il sapore di un taccuino alla Giovannino de Grassi e l’emozione di un pittore romantico.
Tra le opere celebri anche Melanconia I, “l’immagine polisemica per antonomasia” (Strinati), specchio di un artista che si presta a diverse interpretazioni. Più che di uno stile si parla infatti di “iconografia düreriana”, un repertorio, un insieme di vari livelli di lettura che traducono un’unica idea. Quanto più ne è difficile l’interpretazione tanto più ne è affascinante il senso.
Rispetto alla prima parte della mostra, ben articolata e ricca, la seconda parte in un primo momento delude un po’. Ovviamente non per il parterre di opere esposte, quanto forse per l’impossibilità di rappresentare la miriade di esempi in cui si possa vedere manifesta l’eco düreriana in Italia. Come sottolinea la curatrice Kristina Herrmann Fiore, “se ne potrebbero esporre a centinaia”. Ed è proprio questo il limite, il significato e l’importanza di questa impossibilità: la produzione di Dürer attraverso le stampe non solo è notevole come miniera di esempi da sfruttare, ma soprattutto testimonia come anche da stampe molto piccole “si sia potuta trasmettere una invenzione compositiva ad opere di grande formato” (Kristina Herrmann Fiore). Un apporto più che utile per lo studioso e l’appassionato d’arte, un po’ meno facile da ammirare e comprendere al semplice visitatore che da tanta miscellanea può uscire disorientato.
Ancor più difficile sarebbe poi indagare sull’influsso di Dürer anche in altri secoli; questa sezione ha per titolo infatti La lunga durata della memoria di Dürer nell’arte italiana tra ‘500 e ‘600, limitando la ricerca a questo arco temporale. Tra i capolavori scelti, opere di Lotto, Bellini, Raffaello, Michelangelo, Carracci, Maratta.
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