Lei ha uno splendido abito di raso azzurro cangiante, i capelli che scendono lungo la schiena, la testa reclinata all’indietro, abbandonata fra le mani di lui. Che la bacia con intensità, i volti appena visibili dietro l’ampio cappello. Luce e penombra rendono magica l’atmosfera de
Il bacio di
Francesco Hayez, icona di questa straordinaria mostra che racconta un secolo di pittura italiana. Il bistrattato Ottocento, liquidato con giudizi non certo positivi da Longhi e da molta critica novecentesca, stretto fra l’eco ingombrante di un passato glorioso e la crescente fama dell’arte francese, divenuta il perno del panorama artistico europeo.
Da alcuni anni, accantonati pregiudizi e opinioni tranchant, è in atto un processo di revisione critica: anche nel XIX secolo l’arte italiana espresse idee nuove e grandi individualità. Lo conferma l’attraente selezione fatta dai curatori: una rassegna che spazia dalla purezza formale del neoclassicismo agli accenti vibranti della scapigliatura, perché l’Ottocento non fu solo pittura di
macchia. Tra questi due estremi si distende un secolo denso di complessità sociali e radicali trasformazioni.
L’esposizione comincia dalla fine: il visitatore è accolto da due opere immense per dimensioni e significato:
Maternità di
Gaetano Previati e
Quarto stato di
Giuseppe Pellizza da Volpedo, esiti opposti del divisionismo. Forme disfatte nel pulviscolo dorato per Previati, che anticipa le atmosfere irreali del simbolismo; sovrapposizione di colori puri in un’immagine quasi fotografica per l’incedere solenne dei lavoratori di Pellizza. Dopo questo inatteso prologo si torna a inizio secolo e si procede in ordine cronologico. Fa da spartiacque il 1861, anno dell’unità d’Italia.
L’Ottocento si apre con il neoclassicismo, ultimo degli stili internazionali: allegorie mitologiche (le storie di Giunone di
Andrea Appiani), ritratti idealizzati di aristocratici (ancora Appiani),
vedute cristalline. Poi l’unità della cultura si disgrega e il romanticismo dà voce alle identità nazionali. Un nuovo sentimento della natura trasforma la pittura di paesaggio (belle le opere di Giuseppe Canella), volti intensi e sguardi inquieti animano i ritratti (l’autoritratto di
Giuseppe Bossi). È il momento eroico della pittura, impegnata “
di fronte alla società e alla storia”: gli ideali di patria e libertà, le camicie rosse dei garibaldini infiammano gli artisti, che narrano fatti pubblici e risvolti privati della cronaca risorgimentale (gli
Induno,
Odoardo Borrani).
Nel 1861 l’agognata Unità: la faccenda soddisfa pochi e delude i più, molti ideali vanno in pezzi. Gli artisti abbandonano gradualmente l’impegno civile e guardano alla realtà con occhio nuovo. Ne mettono in evidenza le contraddizioni sociali (
L’alzaia di
Telemaco Signorini) oppure analizzano con spirito positivista gli effetti di luce. Nasce la pittura di
macchia che, dopo i primi esperimenti, si volge a un esplicito recupero della tradizione formale del Quattrocento (c’è
Piero della Francesca nella solennità di
Silvestro Lega).
Gli artisti abbandonano le Accademie e discutono nei caffé sul modo di fare pittura. Per tentare la strada del successo vanno a Parigi e dipingono il bel mondo (
Boldini,
De Nittis,
Zandomeneghi); altri si concentrano sull’individuo e danno vita a opere intessute di magia visionaria, poco comprese dal pubblico (tra questi, Previati). Si annuncia un dialogo difficile tra pubblico e artisti. Questa però è la storia del Novecento.