Una serie rarefatta di pitture di piccole dimensioni, disposta in uno spazio che per l’occasione pare espandersi nel biancore illuminato dai caratteristici finestroni del soffitto, è la prova romana corrente di
Peter Malmdin (Stoccolma, 1970). Presentato in anteprima nazionale dal curatore Pericle Guaglianone con un affilato testo volto a far emergere la peculiare monumentalità delle piccole cose tipica del pittore, il lavoro di Malmdin colpisce sin dal primo sguardo per un ricercato -e ottenuto- effetto straniante, che trova nella selezione dei soggetti il suo principale motore.
Una figurazione pastosa caratterizzata da toni insieme profondi e spenti (ottenuti con colori a olio stesi su rettangoli di palight, un pvc particolarmente leggero e versatile) viene infatti applicata alla resa di immagini fotografiche, scelte sulla base di precisi canoni estetici e intenti espressivi, posto che l’artista, secondo le sue stesse parole, è interessato
“a immagini che percepisco come dissimulatrici, soppresse e anonime. Immagini con una tensione tra la visualizzazione e un livello di astrazione”.Rielaborate attraverso tagli dal sapore genuinamente cinematografico -ricorrente è l’applicazione di un originale piano americano rovesciato, che lascia la figura di tre quarti privandola della testa- le figure di Malmdin partecipano tutte di una sommessa inquietudine, prive come sono di una rassicurante interezza, o almeno di una parzialità visiva più ordinaria. Trasmettono così un’impressione di raggelamento, che contraddice l’apparente ricchezza di dettagli narrativi, trasformandola piuttosto in una messe di indizi senza possibilità alcuna che dagli stessi possa giungersi a una qualsiasi soluzione.
Nelle macro di dettagli colti in un piovoso luna park, nei ritratti di figure dal volto incappucciato o acefale (cui corrispondono, in altre opere, enormi teste del tutto decontestualizzate), s’intende insomma la ricerca di un’immagine senza pretese e al contempo misteriosa, l’immaginazione di una quotidiana surrealtà. Certo non si tratta di una poetica originale, e almeno personalmente il pensiero corre subito alla lezione di
Edward Hopper. Pure, come nei quadri del grande americano, si coglie qui un marchio di genuina idealizzazione dell’istante, la visione accurata e vagamente maniacale di un mondo immobile che, per riprendere un giudizio del poeta Mark Strand relativo proprio a Hopper,
“godeva di vita propria e non sapeva -né gli importava- che io vi capitassi per caso in un dato momento”.
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eh, niente male. Hai capito il Guagli(an)one che ti va a scovare