Non è del tutto peregrino domandarsi: “
quando i rifiuti diventano arte”? Sì. E come tutti gli oggetti rifiutati, allontanati e scartati, portano con sé e dentro di sé una particolare storia (
Boltanski insegna).
Romantica è la storia raccontata e l’atmosfera creata da
Gianluca Malgeri (Reggio Calabria, 1977; vive a Berlino). Come esploratore, archeologo o investigatore che cautamente si muove tra le macerie sparse sul pavimento (ora non più, perché rimosse), alla ricerca dell’indizio o del reperto, agisce e si muove il visitatore quando entra nella prima stanza. La “storia” raccontata da Malgeri è la fantasia sopra un pezzo di muro trovato all’uscita del portone della propria abitazione berlinese, di cui ha cercato di immaginarne la provenienza, di ricostruirne un passato, una memoria. La sensazione di entrare in un luogo fantastico è amplificata dai fasci di luce intermittenti, che producono strane ombre sulle pareti, diffusi dall’
Amphora, ri-costruita con pezzi di recupero (tappi di barattoli in legno).
Ombre tremolanti sono, invece, quelle create dalle fiammelle delle candele sistemate all’interno di una (apparentemente) fragile e instabile “torre”, eretta come un castello di carte o lego, in cui si cercano i punti combacianti per incastrarli fra loro. Anziché carte o mattoncini rossi di plastica, Malgeri ha utilizzato materiali di recupero (o di spoglio?), mattonelle di ceramica di vecchie stufe tedesche. E quell’iniziale reperto è riposto sotto una teca, come un prezioso ritrovamento archeologico.
Diversa è l’atmosfera creata e la storia raccontata da
Alessandro Piangiamore (Enna, 1976, lavora a Roma). Sculture in legno, di forme geometriche elegantemente deformate, poggiate direttamente sul pavimento, che sfacciatamente sfidano ogni legge di gravità (
Sottratto all’inerzia #1 e #2) o il visitatore a oltrepassarle, perché poste come inquietanti guardiani del passaggio (
Non si teme il proprio tempo, è una questione di spazio). Con titoli complessi, che esprimono l’ironia dell’artista, perfettamente levigati, lucidamente smaltati di bianco, i distorti legni conservano, come una sorta di non finito, la loro vera anima, quello che era il loro stato originario (tavole verniciate) o la loro struttura materica (
Io a 31 anni considerando un nonno falegname e uno ingegnere, ovvero un autoritratto).
Oggetti scartati che riacquistano una certa dignità anche nelle immagini fotografiche appese sui muri. Con titoli altrettanto complessi, in
(generalmente) un fatto di gravità, questi oggetti ritratti, colpiti da un certo fascio di luce, sono alterati nel loro aspetto, perdono la loro totalità, diventano qualcosa d’altro, di indefinito e di difficile definizione. E nell’immagine
Una condizione remota sono gli stessi frammenti di legno ritratti a trasformarsi nella reale cornice della stampa fotografica, come un’ulteriore semplificazione kosuthiana.