Una call senza restrizioni di sorta e dieci finalisti – su un centinaio di partecipanti in totale – fanno una mostra fondata su una domanda semplice, e anche vitale quando gli algoritmi riempiono gran parte delle tue giornate: qual è il rapporto tra arte e intelligenza artificiale? Questo prova a capire e scoprire il Re:Humanism art prize promosso da Alan Advantage, azienda che oltre ad essere nel campo dell’innovazione tecnologica vanta un amministratore delegato – non a caso – appassionato d’arte contemporanea.
Siamo alla prima edizione del premio, ergo le attese sono vaghe e ci andiamo cauti, curiosi quanto basta per un tema base di moda, ma non di largo consumo. Senza giri di parole: che ci sia del difficile nel proporre una collettiva di questo tipo ne siamo fermamente convinti. Molto convinti, finché entrando in uno spazio di per sé “fusion” – AlbumArte è architettonicamente un ibrido molto particolare, un distaccato white cube sovrastato dalla rusticità agli antipodi di un tetto in legno travi a vista molto “avvolgente” – le aspettative si combinano con una realtà non pianificata. C’è della pittura, un acrilico su tela, un bell’esempio di informale figurativo pieno di pennellate grosse quanto grezze. Un ensemble gesto-cromatico come non se ne vedeva dai tempi di Willem De Kooning, e che un manuale di storia dell’arte piazzerebbe con tutta probabilità proprio spalla a spalla col mitico olandese. Sinceramente? Senza nemmeno sfigurare.
Scienza e non fantascienza, le reminiscenze del mitico film “Corto circuito” le lasciamo per un’altra volta. Qui si va molto più sul concreto, su un’intelligenza artificiale “subdola”, nascosta nel visibile, in un’opera pittorica – My artificial muse di Albert Barqué Durant, Mario Klingermann e Marc Marzenit – a sua volta abile a nascondere una natura algoritmica che seleziona e fonde muse per tutti i gusti, per farvi un’idea dall’Olympia di Manet alla Maja desnuda di Goya. Su questa direttiva un altro trio ha già segnato un’epoca finendo sula bocca di tutti, Obvious Art. Ma se per i francesini alla base c’è un distacco più netto tra pensiero creativo e produzione materiale dell’opera, qui l’input base è lo spirito di cooperazione tra intelligenza artificiale, dotata di potere decisionale, e uomo, soggetto che materialmente crea prestandosi ad essere “mezzo”, a far da ponte in un lavoro sintomatico di come l’intelligenza artificiale possa infiltrarsi – più che entrare apertamente – nelle nostre cose, confondendosi e confondendoti quando meno te l’aspetti. Può giocare d’empatia con l’uomo, mimetizzarsi tra le sue gesta andando ad attaccare la buona fede d’essere di fronte ad un prodotto fatto a mano, ma pensato a macchina. Può far valere sull’uomo la propria capacità di assumere e catalogare una pressoché infinita sequela di posizioni espressive, come dimostra anche Lorem, che con la sua video-fusione di stati emozionali è perfetto contraltare per quella musa “sintetica”. E non c’è due senza tre, aggiungiamo Antonio “Creo” Daniele, più in disparte con Grammar#1, disegni a pioggia e un tablet per decidere “chi ha creato cosa”, se l’uomo o l’algoritmo. Tenuto conto che l’impressione costante è di trovarsi davanti a segni non tanto fatti a mano libera quanto a mente libera, ma ipoteticamente frutto decisionale di un’intelligenza artificiale, si ottiene una confusione di genere che letteralmente “coglie nel segno”.
Giang Hoang Nguyen – The Fall – 2018 – performance e installazione multimediale (materasso, neon, cuffie), audio 12′ – photo Giorgio Benni – courtesy Alan Advantage
Quando la linea di confine artificiale/naturale diviene sempre più sottile l’intelligenza diviene un valore assoluto. Non c’è più distinzione in un gioco delle parti dove per Enrica Beccalli, ad esempio, un algoritmo muove punti nello spazio con la stessa fluida naturalezza di uno stormo di uccelli, primo step di una performance – in lavorazione per il prossimo Romaeuropa Festival – dove sarà una ballerina in carne e ossa a muoversi “comandata” da quegli impulsi. Quasi un pari e patta tra uomo e un’intelligenza artificiale che spopola laddove il primo richiede, intaccando un’identità personale che la quotidiana navigazione internet ha tramutato in qualcosa di alienabile da sé, di effimero. Qualcosa che per Michele Tiberio si riprende la fisicità di un ingombrante volume ad immagine e somiglianza digitale, dove ad esempio tutti i passaggi su Facebook o Instagram diventano traccia effettiva, impressi nero su bianco all’interno di un libro-mattone che è una via di mezzo tra una bibbia 2.0, un vocabolario e un elenco telefonico d’altri tempi. L’impalpabile informatizzazione dei costumi si fa oggettiva, prende corpo e peso specifici. Ma anche un odore inconfondibile grazie all’intervento di Diletta Tonatto e del suo profumo studiato ad hoc, che lavora scaldandone la freddezza intrinseca, creando un rapporto sensorialmente più immediato/diretto col fruitore. Pagina dopo pagina quel volumone si apre ad un racconto personale, odora di un’individualità unica quanto quella descritta dal passaporto, dalla tessera sanitaria e dal libretto universitario di Tiberio fotocopiati e inseriti come incipit. Tracciando l’identikit di un finalista sicuramente meritato.
Il vincitore – per dovere di cronaca Albert Barqué Durant, Mario Klingermann e Marc Marzenit sono arrivati secondi – ha gli occhi a mandorla, Giang Hoang Nguyen. Primo premio – e 5000 euro – per The Fall, che come da titolo in una caduta condensa un po’ tutti i parametri costitutivi di questo Re:Humanism. The Fall mixa l’umana sbadataggine all’artificialità di un processo regolato con appositi comandi imposti tramite voce naturale, anzi suadente, inaspettatamente suadente nell’impartire le sue istruzioni fisse. A riversare un che di grottesco su un operazione già piuttosto grottesca di per sé ci pensa una piccola brochure, che illustra i vari passi da seguire e s’intrufola nel rapporto spettatore/opera enfatizzando quella meccanizzazione del gesto, quella ritualità di un’azione per solito irrituale, tutt’altro che ricercata, poiché nessuno certo arde dalla voglia di finire con la faccia a terra e il sedere per aria. Può succedere a tutti però, concretamente o simbolicamente, e solo un artista d’oriente poteva costruirci su un lavoro tanto ricco nei media, quanto misurato a livello espressivo. L’ultima frase della brochure poi è una lezione di vita in piena regola: “Practice makes perfect. Remember this!”.
Andrea Rossetti
mostra visitata il 23 aprile 2019
Dal 16 aprile al 11 maggio 2019
Re:Humanism Art Prize #1 Edition
a cura di Daniela Cotimbo
AlbumArte
Via Flaminia 122 – 00196, Roma
Orari: da martedì a sabato 15 – 19
info: +39 0624402941; info@albumarte.org; www.albumarte.org