Questa
esposizione coglie di sorpresa chi conosce come pura e assoluta espressione
dello spazio e della luce i lavori di
Roberto Schezen (Milano, 1950 – New York, 2002). Sorprende per
l’atmosfera intima e lo sguardo sofferente con cui osserva il mondo lacerato
dei territori arabo-israeliani, indulgendo con la stessa attenzione sui volti
della gente comune colti per le strade, come sulle icone della politica di
quegli anni, proprio a ridosso della guerra del Kippur del 1973, tra cui anche
Golda Meir e Moshe Dayan.
Proviamo
a confrontare questi documenti di un’intensa umanità con i monumentali lavori
sull’architettura che hanno costellato di pregiate pubblicazioni la breve
esistenza di Schezen. Non è difficile: molti di quegli ingombranti volumi,
pubblicati da Rizzoli New York o da Monacelli Press, sono presenti proprio in
galleria, a disposizione del visitatore.
Mostrano paesaggi e oggetti
architettonici dalle masse perfette, generate dalla matita dei più autorevoli
interpreti dell’architettura d’ogni tempo, tra cui
Palladio,
Wagner,
Loos,
Khan,
Le Corbusier. Sulle pagine
patinate di quei libri ritroviamo il bagliore di superfici percorse solo da
luci taglienti oppure la soffusa quiete di geometrie auree.
Ma
in fondo quegli spazi sono popolati solo dai loro stessi perfetti equilibri.
Nelle immagini di Schezen non c’è veramente posto per l’uomo. Non c’è nelle sue
architetture e nemmeno negli altri temi da lui affrontati: nei suoi paesaggi
alterati, nelle sue scure visioni d’acqua o nei suoi pesci irreali. Persino
quando la figura sembra campeggiare quale protagonista assoluta, non ne è che
il simulacro in marmo o in bronzo. Come nelle serie degli
Atleti dello Stadio dei Marmi o delle
Utopie della rivoluzione russa.
Ecco,
allora, che le 95 stampe in bianco e nero esposte a Roma sembrano colmare quel
vuoto apparente con un’umanità inattesa e commuovente. Quella che emerge dai
numerosi viaggi in Israele compiuti soprattutto tra il ‘73 e il ‘75, quando
collaborava con l’agenzia Gamma Press Group. È lo stesso periodo cruciale della
sua storia personale. Gli anni in cui, al contempo, si va consolidando
definitivamente il rapporto con l’architettura attraverso la frequentazione del
Politecnico di Milano e il conseguimento di un master in architettura.
Queste
immagini restano dunque un capitolo definito del suo lavoro, un’isola dalla
quale Schezen è salpato per sempre, tagliandone ogni legame fisico, al punto di
arrivare alla dispersione di tutti i negativi. Le fotografie in mostra sono
infatti esemplari unici, stampe originali e inedite uscite per la prima volta
dal suo archivio personale. Mute, in quanto prive di ogni didascalia, sanno
raccontare con la loro vivida immediatezza la storia di una sofferenza senza
eguali.