Jamie Shovlin (Leicester, 1978; vive a Londra) si fa interprete degli ultimi anni di una storia americana che intreccia i destini mondiali e disegna i percorsi della contemporaneità. La mostra è calibrata negli spazi e nell’ordine di visione delle opere che tracciano, fra l’una e l’altra, corrispondenze dirette. Così, le due sale antecedenti la
Black Room finale svolgono per il visitatore una funzione introduttiva, anticipandone alcuni elementi e facendo presagire l’innesto più politico che la caratterizza.
La
Black Room è la medesima che il “New York Times”, in un articolo del 2006, identificò nell’ex base militare dell’ex-presidente Saddam Hussein, Camp Nama. Un carcere segreto dove le forze speciali della task force 6-26 praticavano torture senza sangue, in modo tale che i crimini non fossero perseguibili. L’opera di Shovlin, presentata all’ultima edizione di Artissima e racchiusa in questa stanza, coglie le contraddizioni più evidenti, la retorica e l’incanto che gli Stati Uniti hanno prodotto anche a livello culturale. L’artista regala un’esperienza più intensa di quella che guida un primo approccio. Dall’inclinazione a trattare con i materiali più differenti, degna eredità dell’informale, agli omaggi più rilevanti alla pop art di matrice inglese e americana (
The American Way), si aggiunge il gioco simbolico dei colori della bandiera a stelle e strisce che coprono spesso interamente un’immagine la cui natura evidente è sottratta alla percezione immediata.
Così, la scritta che il colore nasconde può emergere soltanto a un secondo livello da una diversa angolatura della visione (
Homeland, 2006). A volte Shovlin utilizza il bitume, che versa su una collezione di dischi o con cui copre il quattordicesimo album dei Chicago (1980), evocando in anni addietro gli scontri avvenuti alla Democratic National Convention e il processo conseguente cui presero parte attivisti come Bobby Seale e Abbie Hoffmann. I nomi di entrambi emergono nelle opere che precedono la
Black Room, così come il tema critico della bandiera trova in
Untitled (Ashes) il pretesto per emergere coerentemente nel contesto in cui è collocata.
Uno specchio su cui sono impresse le regole di comportamento del perfetto cittadino americano nei riguardi del vessillo patriottico è posto a terra e riflette l’installazione centrale
Untitled (Hero/Slave), un intreccio di gambe e braccia di uomini colorate in ricordo di un episodio di protesta avvenuto durante le Olimpiadi del 1968. Questa, a sua volta, è illuminata dal neon di
Untited (The Last Resort), in cui il titolo dell’album degli Eagles,
Hotel California, riluce di una delle tecniche preferite da
Bruce Nauman.
Anche quest’ultima contribuisce a creare un percorso metaforico, ironico, critico e disincantato nei riguardi dell’America dei sogni. Il percorso in galleria corre sul filo della consapevolezza del significato delle opere esposte, da una fruizione disimpegnata al limite di una piacevolezza pop alla rassegnazione che risulta infine evidente. L’opera di Shovlin non lascia spazio all’immaginazione creativa di chi si pone interprete del tutto. I legami sono tracciati e imprenscindibili, tra opera e opera, tra opera e storia, tra storia e uomini.
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certo che la programmazione di uno su nove e' tremenda ho capito solo adesso il nome della galleria.
ovvero un evento su nove sara' accettabile!
ma cercate di lavorare seriamente!
Scusa??!?!?!?!?
ma scherzi??? questa sarebbe una brutta mostra??? e matt callishaw, elen gallagher, los carpinteros, ivan navarro, nenache queste mostre hai visto????