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La mancanza, la nostalgia, tutto è una menzogna letteraria. Non manca un paese o una città, chi si sente patriota, chi pensa di appartenere a una nazione è uno stupido. La patria è un’invenzione, statistiche, numeri senza volto”. Parole dell’attore argentino Federico Luppi nel film
Martin (Hache) che, tuttavia, celano una malinconia repressa, quasi disprezzata. Discorsi di un esiliato “porteño” che s’intrecciano in qualche modo, pieni di rammarico e volendo sciogliere qualunque accenno di emotività, con la poetica di
Ernesto Morales (Buenos Aires, 1974; vive a Roma).
L’artista argentino presenta un nuovo ciclo di lavori pittorici in cui si svela una sottile polarità tra l’Argentina e l’Italia. Una dialettica in cui le somiglianze, le affinità e le armonie tra i due Paesi vengono avvicinate attraverso le vedute spoglie, dileguate e notturne di alcuni edifici moderni all’Eur, la Stazione Termini o le Poste di Adalberto Libera di via Marmorata a Roma, insieme ad alcuni palazzi di Buenos Aires. Le differenze, le distanze e le discordanze vengono, così, sommerse, attutite. Architetture razionaliste anonime, paesaggi urbanistici vuoti d’ogni presenza, senza contesto preciso, su cui sono scritti testi smarriti, nuvolosi, quasi illeggibili.
Si rivela così un legame vicino alla metafisica borgesiana, attraverso cui l’artista riflette sull’esilio, sulla situazione fisica, e soprattutto mentale, in bilico tra due mondi, tra due realtà diverse, senza riuscire a intuire a quale appartenere veramente. Una sensazione di spaesamento ed estraneità in cui si ricerca continuamente l’identità di chi vive nel vuoto, di chi vede ricordi e luoghi conosciuti in qualunque ambiente percepito distrattamente.
La mostra si sviluppa in una sequenza di richiami e rimandi da un lavoro all’altro, da un Paese all’altro, di sottotesti, e sottotesti di sottotesti, in un formato che ricorda il celebre romanzo
Rayuela di Julio Cortázar, per cui i paesaggi urbani diventano memorie, parvenze di spazi prestabiliti, scevri di qualunque riconoscibilità.
Tra i colori grigi, predominanti nelle tele di Morales, si accentuano quegli oggetti o elementi che potrebbero fungere da bussola per trovare le impronte scomparse. Strisce pedonali, finestre, tetti o lampioni sono evidenziati con un azzurro intenso o un giallo spento, ricalcando la dicotomia tra l’esultanza del cambio, della partenza, dell’avventura in cerca di nuove prospettive e la malinconia di chi lascia un posto carico di vissuti, di ricordi ineffabili, di amicizie o parenti lasciati indietro.
In questo senso, nelle sue architetture non ha importanza quale sia il palazzo rappresentato o la città in cui è stato edificato. Sono visioni dell’esilio, di un viaggio intrapreso senza rimpianti o pene che, però, non impedisce di guardare altrove o semplicemente indietro, per cercare nella propria storia, nelle proprie radici, nella propria provenienza, la vera identità che costituisce il presente.