Che la fotografia godesse di una grande potenzialità interpretativa,
Timothy Greenfield-Sanders (Miami, 1952; vive a New York) l’aveva già dimostrato in passato, quando mise in posa divi del porno, uomini e donne, prima vestiti e poi nudi, snaturandone lo stesso carattere pornografico. E tuttavia, la sua interpretazione scavalca un ruolo visibilmente creativo. L’artista americano infatti non interviene in maniera manifesta, manipolando le forme o i soggetti -non più di quanto faccia il computer- o alterando in maniera anomala luci e colori. E seppur lo fa, segue la tecnica a cui i flussi di immagini, dalle riviste alle locandine cinematografiche, ci hanno ormai abituato.
L’atto del fotografo, presenza mediana tra soggetto in posa e spettatore, si mostra a un livello successivo, invisibile ed emozionale. Le fotografie di Greenfield-Sanders comunicano un senso di pacatezza, di rilassamento, e a uno sguardo curioso che rapporta ai nomi i volti celebri, fa succedere un sorriso. In sinergia diretta con la
Festa del Cinema, la prima personale dell’artista a Roma dichiara il suo atto di fedeltà a un ambiente, quello cinematografico, da cui proviene, in cui si è formato come fotografo; allo stesso tempo, è un incontro dialettico tra le diverse prospettive del mezzo: da un lato la spettacolarità e il glamour perpetuano le distanze dal quotidiano, dall’altro l’omogeneità delle pose,
la ripetitività del focus sullo sguardo sereno dei protagonisti, attori come registi, dischiudono a un rapporto meno impari di quanto si pensi.
La mostra celebra la natura profondamente pittorica dell’arte di Greenfield-Sanders, quella più legata alla ritrattistica tradizionale. Ne dispone i grandi scatti secondo un percorso a-cronologico che, al contrario, gioca sulle minime variazioni delle pose delle celebrità. Così i tre quarti di
Tom Hanks e
Marcia Gay Harden sono del tutto simmetrici alla posa frontale di
Woody Allen. Altrimenti la scelta di disporre sulle pareti fotografie di uguali dimensioni si spiega quando lo sguardo trova di fronte a sé uno scatto più imponente, che si distingue in grandezza e concorre per il ruolo da protagonista nella sala che lo ospita:
Bill Murray al piano inferiore,
John Waters e
James Gandolfini (2006) al piano superiore. Quest’ultimo spicca all’interno di una sala dedicata a opere trattate diversamente dalle precedenti, realizzate fra il 1989 e il 1999. All’unico trittico (
Hugh Hackman, 2003) al piano inferiore, che mostra il soggetto nei diversi abiti del suo essere, sul lavoro e nella vita, si raccorda il “doppio” (
Rachel Weisz, 2005) a quello superiore. Corrispondenze che si ritrovano internamente alla stessa sala, quando ai fondali monocromi dalle tonalità del grigio, una piccola serie di fotografie sostituisce il colore in accordo agli abiti dei soggetti ritratti o, ancora, la menzione d’onore ad
Alfred Hitchcock (1976) e
Orson Wells (1979) posti l’uno accanto all’altro.
Qui Greenfield-Sanders non aveva ancora trovato la propria specificità d’artista: ancora il personaggio celebre è padrone della propria immagine, ciò che non avviene, e che accadrà poi, è la relazione sociale, tra Greenfield-Sanders e l’uomo o la donna (prima ancora del ruolo di “divo/a”) ritratti, che le successive fotografie rivelano, provocando un’empatia con chi le guarda. Sorprende l’apparente invariabilità della tecnica fotografica negli anni. Greenfield-Sanders resta in bilico tra contenuti pop e tradizione stilistica.