Lieve il profumo di bucato che si percepisce entrando nel
nuovo spazio di The Gallery Apart, avvicinandosi a
Orfanelle ormai in età da
marito. Accoglie
lo spettatore, insieme alla “quarta voce” che si diffonde dall’ambiente
sottostante, al fruscìo del ventilatore acceso e all’aritmìa dei cassetti che
si aprono e si chiudono.
La
Manutenzione sentimentale della macchina celibe – questo il titolo della
personale di
Luana Perilli (Roma, 1981) – è l’evocazione di una metodologia
dadaista, partendo da una negazione. Infatti, se il complesso macchinario di
Duchamp implica una sterilità
fisiologica, le opere di Perilli sono attraversate da una fitta rete di
relazioni affettive e familiari.
Che si tratti di collage, video o installazioni (che
l’artista preferisce chiamare sculture), l’interazione è ironica quanto cinica,
raffinata e intelligente ma, soprattutto, aperta a vari livelli di lettura. Una
fruizione che può essere veloce, ma con un pizzico di attenzione in più
permette di cogliere tutte le sfumature “enigmistiche”.
A
partire proprio dai collage, nati da illustrazioni degli anni ’70, che
ripercorrono l’avanguardia del design. Nutrendola con il bagaglio personale di
avida lettrice di Calvino,
Cortázar,
Perec, con un posto speciale per l’eclettico Boris Vian
(nato come lei il 10 marzo) – dalla “
fantasia cinica pirotecnica”, come lo definisce la stessa Perilli, che ha
utilizzato la sua poesia
Io non vorrei crepare per il lavoro della Quadriennale – l’artista
recupera la tecnica della tarsia, lavorando per sottrazione, come nella
scultura.
“
Piccoli
spostamenti, sovrapposizioni, tagli, cancellazioni con la china bianca”, spiega, “
che permettono agli oggetti di
assumere altre forme, interagendo in maniera quasi umana”. Anche le didascalie a corredo delle immagini,
attraverso la “sbianchettatura”, diventano brevi testi poetici.
Sì
dolce è il tormento, invece, è un
video breve – non narrativo ma evocativo – in cui “
l’immagine, molto ricca,
funziona come frame”. Focalizzati
una serie di oggetti all’interno di spazi domestici “in transit”: hanno un “
posizionamento
del tutto randomico”, che coincide
con la fase di passaggio di un trasloco o di una ristrutturazione. Le immagini
veloci sono accompagnate dall’omonimo brano di Monteverdi, composto nel
Seicento per voce di castrato. Qui “
l’oggetto si carica del desiderio,
invece la voce – che dovrebbe essere l’elemento umanizzante – è, in realtà,
quella di un uomo privato della sua possibilità di riprodursi, quindi
modificato strutturalmente come una macchina celibe”.
Carichi
di storia e memoria individuale (che diventa collettiva), in particolare, gli
oggetti decontestualizzati utilizzati per le sculture dedicate a orfani e
vedove, dove il concetto di privazione – quindi di lutto/assenza – è
esemplificato da
Vedova da troppo tempo. La sedia Luigi Filippo, con una gamba amputata, è attraversata da
un taglio che ne svela l’intimità: i buchi dei tarli della struttura lignea,
l’imbottitura della seduta…
È
un oggetto attraversato dal tempo, proprio come una persona: “
Lacerato
dall’evento – in questo caso il lutto – che continua a operare internamente,
proprio come i tarli che non si vedono all’esterno”.