Nel magazzino Le Gallinelle il cibo è un’inevitabile metafora spaziale, laddove il luogo espositivo risulta essere un antico locale predisposto alla conservazione degli alimenti dell’ex convento soprastante; analoga metafora di vita quando
Jessica Iapino (Roma, 1979) fa dell’anima -corrispettivo di una
mens sana in corpore sano– il concetto strisciante delle opere in mostra.
Le installazioni site specific giocano sulle assonanze che l’ambiente buio e suggestivo di una simil-cripta può ovviamente suggerire all’attenzione del visitatore. Proiettati sulle pareti dei cunicoli sotterranei, due corpi: quelli di un uomo e di una donna nudi, de-individualizzati, ossequiosi al post-umano, che battono il pugno sul muro, sollevano la testa quasi in stato ascetico, si privano vicendevolmente di sguardi, separati l’uno dall’altro dalla superficie di un lettino da obitorio che è pure presente in mostra come vuota formalità estetica, oggetto feticcio che assume valore nel progressivo scoprire le opere lì presenti.
Cosicché l’anima di Iapino è la realtà stessa della mostra.
Dal corridoio iniziale, la voce dell’artista introduce nel limbo oscuro e senza tempo di una vita al suo trapasso:
Who am I?,
Where am I? sono alcune delle domande che rimbombano nel vuoto. Tornando al cibo, ciò che qui lo lega all’anima è il concetto di perfettibilità del corpo, perché quelli in scena sono corpi oltre lo stato di dolorosa malattia, in quella cortina velata che separa la potenza del vivere dalla volontà di morire.
Non è un caso che il curatore, Alessandro Facente, segnali il caso di Piergiorgio Welby, che recentemente ha sollevato un importante dibattito sulla bioetica. Iapino segnala lo stato di scissione tra la vita e la morte, e se mina l’uomo che invano oppone resistenza battendo il proprio pugno contro il muro, è alla sua natura passiva che si riferisce, perché al di là del ripiegamento individuale a cui sembra di assistere, già l’individuo non è più carne ma è coscienza logica, attiva e reattiva, che si pone domande e mostra volontà di potenza (
Bring me Back High, sussurra l’artista).
Un appunto di quel che sarà nella seconda parte del progetto, in ottobre, una rivalsa dell’uomo attivo di cui il secondo artista,
Angelo Bellobono, darà prova. Il lettino da obitorio, posto da Iapino al centro di una delle due sale speculari, giace come traccia di un’azione seminarrativa che si sviluppa con i due video successivi, proiettati uno centralmente al corridoio principale, l’altro ortogonalmente all’oggetto e, in un gioco di assemblaggi visivi, obliquo rispetto uno dei varchi lungo il percorso. Il lettino-feticcio, oggetto narrativo dei due filmati, insinua il dubbio se rapportare l’azione al passato o concepirla come futuro, a convalidare l’atemporalità evocata dal limbo sonoro introduttivo.
Latte ad alta digeribilità è la metafora di un male sotterraneo, maschera di buona salute, socialmente desiderabile di un desiderio etero-indotto. Jessica Iapino porta alla dolorosa riflessione che aprirà le porte sulla consapevolezza.