Nei neonati spazi della Galleria Schiavo Mazzonis, irrompe la mostra dell’americano
Jay Heikes (Princetown, 1975; vive a Minneapolis e New York), investendo le stanze di segni e riferimenti completamente opposti rispetto alla prova del britannico
Rory Logsdail, lì precedentemente ospitata.
Ciò che subito appare chiaro è che il lavoro di Heikes parla di divertimento, colore, materia, e di come tutto, prima o poi, sia destinato a dissiparsi e a venir meno. Heikes, che alla biennale del Whitney del 2006 presentò una serie di installazioni partendo dal tema della barzelletta e delle sue implicazioni sociali e filosofiche, continua il proprio progetto di rappresentazione di un presente stratificato, mixato e antieroico.
L’inedita serie di fotografie intitolata
Civilians, dal sapore vagamente pittorico, mostra corpi e volti. O, meglio, rappresenta ciò che ancora possiamo identificare come tali, maschere e simulacri nei quali riecheggiano richiami diversi, che spaziano da
Non Aprite quella Porta ai reportage di guerra e cronaca nera. Se da un lato i “civili” di Heikes, ancora una volta, alimentano la metafora romeriana dei morti viventi, dall’altro il loro spirito, scevro da ogni riferimento ideologico, si avverte più come celebrazione di una mitologia personale, ironica.
Le bellissime sculture fitomorfe
Idle Hands e
River’s Edge, realizzate con una lega non-lega di ferro e bronzo arrugginita, metaforicamente alludono a questa duplice anima delle cose e alla figura dell’artista che, per rappresentare la natura, deve necessariamente ricorrere a un artificio.
Con altrettanta cura e originalità per i materiali, Heikes presenta tre grandi pannelli d’acciaio sui quali è intervenuto diversamente, utilizzando sostanze abrasive e smalti dai colori acidi che, tramite campiture irregolari, creano un tipo di pittura che più che astratta si potrebbe definire lisergica. Come i volti di alcuni
Civilians, che in realtà sono alveari, parlano di un continuo slittamento di senso e di immaginari diversi che, proprio nella loro contrapposizione e contrasto, trovano un punto d’equilibrio e sintesi.
In un mondo con queste caratteristiche, sembra suggerire Heikes, tutto è sottoposto all’usura, al pari della battuta, della barzelletta dei precedenti lavori, che nella sua reiterazione rischia di perdere forma e di consumarsi. Persino l’arcobaleno, fenomeno fantastico ed emotivamente rassicurante, è qualcosa di precario e sottoposto all’erosione del tempo – rimarcato in mostra dalla presenza di un orologio-sveglia – che lo accomuna a tutte le cose.
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Molto coraggiosa, ma senza dubbio una bella mostra. questa galleria si sta rivelando lo spazio più sperimentale e interessante di tutta Roma.