“Dal latte scremato estraeva la panna, dalla polvere di carbone i brillanti, di un passerotto faceva l’araba fenice, di un paralitico un corridore, profondeva sempre il suo talento dove c’era poco di qualcosa, per dimostrare che omnia ubique e che il massimo è nel minimo, che ogni punto del mondo è il centro del giardino dell’Eden, mentre i giardini pensili si trasformano lentamente in macerie e polvere e in quella polvere ogni bellezza resiste, in quel pizzico di argilla ogni cosa ricomincia”.
Questo era Vladimir Boudnik ne Il tenero Barbaro, lo straordinario ritratto che gli dedicò il suo grande amico Bohumil Hrabal, maestro della letteratura ceca contemporanea. Per esseri come Boudnik (e Hrabal) è praticamente impossibile distinguere tra l’uomo e l’artista, ma proprio per questo bisogna prestare particolare attenzione alla loro arte, realizzata nella fucina di una vita sempre tesa fino al punto di rottura, evitando di appiattire gli altissimi risultati espressivi raggiunti sul fascino boemio della biografia. Del resto, il problema degli artisti che compiono ancora in vita il salto tra quotidianità e leggenda è proprio che, visti da lontano o sui libri, appaiono compresi in una sorta di eroismo vitalista il quale, spesso, ne oscura ingiustamente i meriti creativi.
Boudnik (nato a Praga nel 1924, vissuto per lungo tempo come operaio di fonderia e morto suicida nel 1968) è un ottimo esempio di quanto si viene dicendo, e la mostra in questione, che raccoglie un numero ampio di grafiche coprendo tutte le varie fasi dell’attività artistica, consente finalmente di far conoscere anche in Italia la grandezza di questo maverick della grafica novecentesca.
Sin dagli anni Quaranta, ancora giovanissimo, Boudnik inventa una tecnica d’incisione diretta combinata al collage che chiama esplosionalismo, dove l’immagine finisce dispersa e frammentata in un processo di continua riorganizzazione visiva. Nel fare ciò, egli salta con destrezza tanto lo sterile intellettualismo quanto il conformismo di partito che soffocava la coscienza artistica del suo tempo (si tenga a mente che la Cecoslovacchia di allora non era propriamente una società aperta), approfondendo in maniera mirabile la ricchezza psicologica dell’astrazione. Scrive l’artista: “il quadro deve essere come un film pieno di innumerevoli quantità di tensioni ed esplosioni psichiche condensate nell’area immobile ed eseguite in un tempo infinitamente breve”. A ben vedere, è il medesimo principio che anima tutte le sue evoluzioni successive, anche quando tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta sviluppa la nozione e pratica di tecnica attiva, applicando alla lastra procedure proprie del suo lavoro in fabbrica (battute di martello, saldature autogene, intacchi di scalpello) per svolgere una poetica del frammento che trae ispirazione dall’elemento minimo alla base dell’esistenza quotidiana, la polvere in cui, appunto, la bellezza resiste con infantile stupore: la crepa di un muro nella periferia praghese, i graffi di un ubriaco sul sottobicchiere di una birra, gli scarabocchi della lettera a un amico.
La grafica magnetica della metà degli anni Sessanta -fondata sul ricorso alle attrazioni e repulsioni dei campi magnetici per disporre sfridi metallici sulla lastra da stampare- è l’ultimo approdo, prima del definitivo schianto umano, di un’opera perennemente al limite, dove, per citare ancora Hrabal, come nella vita sempre e di continuo “Vladimir era in grado di fare quello che fanno le automobili moderne. Di mandare la miscela direttamente alla candele senza dispersione nel carburante. La materia grezza direttamente nel campo della trascendenza”.
Si consiglia la visione ad un pubblico risolutamente non adulto.
luca arnaudo
mostra visitata il 22 marzo 2006
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