La mostra
Jean Prouvé, la poetica dell’oggetto tecnico è in tour mondiale da mesi e anche considerando la sola Italia, l’allestimento al Museo dell’Ara Pacis non è una prima, vista la precedente tappa di Palazzo Te a Mantova. Una mostra imperdibile ma ormai più che nota offre la possibilità di tentare una chiave di lettura almeno inedita per un personaggio le cui sempre più frequenti celebrazioni iniziano ad accumulare qualche luogo comune.
Partiamo da un paio di aggettivi che Bruno Reichlin, uno dei curatori, si lascia sfuggire nella sua introduzione a proposito di un
Jean Prouvé: “
Corretto e un po’ ingenuo”. Estendiamo con una certa tranquillità questa definizione e costruiamoci un’immagine di Prouvé preparatissimo nerd della carpenteria metallica. Concentrato a livelli da sindrome sull’organizzazione del flusso produttivo e sulla gestione d’impresa capace di generare le serie dei suoi oggetti.
Questa concentrazione lucida permise a un Prouvé fabbro ventiseienne di bussare da outsider allo studio
Mallet-Stevens (noto quanto e più di
Le Corbusier, all’epoca), ottenendo il primo incarico professionale di prestigio. Incarico minimo -una cancellata per la villa parigina dei Reifenberg- ma capace di farlo accedere alla cerchia che si ritroverà nell’Union des Artistes Modernes nel 1930 (con Le Corbusier,
Tony Garnier,
Marcel Lods,
Eugène Beaudouin, oltre allo stesso Mallet-Stevens).
La capacità di estendere un’attitudine personale all’organizzazione di un’équipe porterà in pochi anni
Les ateliers Jean Prouvé di Nancy a una sessantina di dipendenti e, nel dopoguerra, alla riorganizzazione in senso industriale con i nuovi stabilimenti di Maxéville.
Questo successo attrasse nel 1949 il gruppo societario Aluminium Français, che divenne partner degli Ateliers, con la prevedibile conseguenza di uno stravolgimento del concetto di lavoro calibrato sulla visione personalissima di Prouvé. La progressiva perdita di controllo da parte di Jean Prouvé sulla sua stessa creatura è sintetizzabile nello stravolgimento della gestione di impresa e sviluppo, nel divieto che ricevette di accedere ai locali di Maxéville e nelle sue dimissioni, rassegnate nel 1953. Probabilmente quell’uomo “
corretto e ingenuo” e formidabile tecnicamente, dal punto di vista delle relazioni con un consiglio di amministrazione era, come dire, piuttosto scomodo.
Prouvé stesso ammetteva: “
Sono morto nel 1952”. E i suoi successivi tentativi di reinserimento professionale con lo sganciamento da Aluminium Français e l’apertura di due nuove edizioni dello studio a Parigi suonano soltanto malinconici a cinquant’anni di distanza.
Così come malinconico suona anche il suo ruolo di presidente della giuria al concorso per il Centre Pompidou a Parigi del 1971. Oggi si cerca di farlo passare come l’artefice della vittoria di
Piano e
Rogers, dimenticando che a vincere furono soprattutto le relazioni internazionali di Rogers e che nei vari tentativi di annullare il procedimento per impedire che due trentenni sostanzialmente italiani costruissero un museo nazionale francese con acciaio tedesco s’invocò -con risonanza internazionale- anche il cavillo che Prouvé non avesse la licenza di architetto. E non deve certo avergli fatto un gran piacere.
Torniamo al periodo d’oro degli Ateliers. Perché per evitare di associarsi a tutte queste postume/posticce celebrazioni va rilevata anche un’altra cosa non di poco conto. Il considerare l’oggetto bicicletta, l’oggetto sedia, l’oggetto casa allo stesso livello andò a palese discapito dell’oggetto casa.
Un’abitazione non è l’insieme ingegneristico delle sue prestazioni oppure l’evidenziazione -a oggetto finito- del processo che lo ha determinato. Leggere un’abitazione in questo senso fa dell’atmosfera un fattore trascurabile. Oggi le esperienze delle case à coque, a nucleo portante, a stampella, a sgabello interessano e incuriosiscono come manifestazioni del dettagliato estro tecnologico di Prouvè. Ma la differenza in termini di atmosfera tra le proposte di case in serie per Citroën e -per dire- la casa per le vacanze Seynave o l’abitazione per Raymond Lopez è tutta in questa sensibilità ambientale maggiore che la collaborazione con gli architetti infondeva nel lavoro di Prouvé.
L’amarezza per l’estromissione dagli Ateliers dev’essere stata decisiva sul piano personale. Cinicamente possiamo dire che lo fu anche sul piano professionale, e in positivo. La sensazione è che Prouvé fu costretto a un lavoro meno ambizioso, ma capace di esiti di una qualità superiore. Tornando a essere quel partner incredibile per un gran numero di architetti, capace di dare il proprio contributo evidentissimo a realizzazioni come il palazzo delle fiere a Lille (architetti
Paul Herbé e
Maurice Louis Gauthier), l’edificio per appartamenti in place Mozart (architetto
Lionel Mirabeau), la sala della fonte Cachat a Evian (architetto
Maurice Novarina), così come prima del 1950 era stata la partnership con
Eugène Beaudouin e
Marcel Lods a determinare la realizzazione della casa del popolo a Clichy.
Torniamo a Lungotevere in Augusta prima di concludere. Oggetti, disegni, plastici e la traiettoria personale di Jean Prouvé sono ora in mostra a Roma nei locali più imbarazzanti tra quelli offerti dal Museo dell’Ara Pacis. Niente da dire sull’allestimento. Forse si poteva evitare il modello cigolante 1:5 della facciata dell’edificio in rue Mozart, che fa molto museo della tecnica nord europeo e tra l’altro rappresenta un automatismo che l’edificio invece non possiede. Forse si potevano esporre alcuni oggetti -soprattutto i tavoli- con una inclinazione che consentisse di apprezzarli meglio, invece di esporre il tavolo della Triennale del ‘51 a zampe in su come durante un trasloco. L’aspetto imbarazzante è invece proprio quello offerto dalla sciatteria di questi locali, con gli estintori posati sul pavimento, sedie e tavoli di servizio scelti e disposti a caso, ad avvilire ancor più il triste episodio dell’edificio che li ospita.
È inevitabile immaginare quanto avrebbe giovato a Prouvé uno slittamento temporale di un centinaio di anni. Agli inizi del secolo la notorietà dei suoi oggetti era limitata all’ambito di semioscuri concorsi per attrezzature di edifici pubblici, e nel campo della progettazione architettonica il suo ruolo era inevitabilmente di secondo piano rispetto a quello degli architetti. Trasportando in avanti di un secolo la capacità e la determinazione di questo uomo, con una nozione ormai stabile e platinata di design basata su una comunicazione globale, inevitabilmente Jean Prouvé avrebbe ottenuto un passaggio privilegiato nel mondo dell’architettura, come quello concesso oggi a parecchie coloratissime star del design internazionale. Delle mezze tacche rispetto a questo maestro.