Correva l’anno 1964 e Susan Sontag pubblicava il celebre articolo Note sul Camp.
Il catalogo della mostra su Cecil Beaton ospitata al Museo Andersen, 108 stampe moderne provenienti dall’archivio di Sotheby’s, si apre con un’osservazione di Pierre Garner: I critici..considerano i suoi scatti superficiali, la manifestazione di una devozione allo stile e al bello ideale, il prodotto di uno spirito snob e di un estetismo camp.
L’essenza della sensibilità camp è il suo amore per l’innaturale, per l’artificio, per l’eccesso, camp è una forma particolare di estetismo. E’ un modo di vedere il mondo come fenomeno estetico. Questo modo, il modo camp non si misura sulla bellezza, ma sul grado d’artificio e di stilizzazione. In quanto al gusto per le persone, Camp risponde particolarmente a ciò che è decisamente attenuato e a ciò che è vigorosamente sottolineato, Camp è la glorificazione del personaggio, è la terza delle grandi sensibilità creative, la sensibilità per la serietà non raggiunta, per la teatralizzazione dell’esperienza, non fa distinzione tra l’oggetto unico e quello prodotto in serie, è il dandismo dell’era della cultura di massa. Soprattutto camp poggia sull’innocenza, è una forma d’amore per la natura umana, s’identifica con ciò di cui gode.
Così Cecil Beaton.
Fin dai primi scatti fotografa un mondo artificiale al massimo grado, e tuttavia nell’aderire e nel ricreare l’artificialità Beaton dichiara anche l’essenza della fotografia, la sua aderenza al reale e la sua facoltà di falsificare il reale, il narcisismo della fotografia che si metarappresenta –sempre- portando all’interno di ogni scatto le proprie metafore.
Così camp in Beaton si sposa con l’analisi critica del medium. Postmoderno prima dell’esistenza del post modern, Beaton fotografa le sorelle come star del cinema, le veste di paillettes e carte di caramelle, la finzione è perfetta, sembra di essere sul set di un film di Cecil De Mille. Amici e parenti nello scenario della campagna inglese sono un fake-Watteau. Su Vogue, 1936, pubblica uno straordinario scatto: incorniciate dalle tende di un teatrino, due modelle posano come marionette, ai polsi fili bianchi. Un occhio a Baron De Mayer, i cui scatti fecero la prima comparsa sulle pagine di Camera Work per poi regalare a Vogue e Harper Bazaar splendide trasparenze di grigio, un occhio alla fotografia surrealista, vengono in mente la Poupèe di Bellmer, gli autoritratti en travestie di Claude Cahun.
Ancora: la fotografia è taglio nel tessuto dello spazio e del tempo, metafora ne è allora il frame, l’atto di incorniciare il soggetto nello spazio di una porta, di una finestra. E Beaton fotografa Gilbert e George, i due artisti inglesi, come sculture umane, sulla porta di casa. Fotografia come interpretazione – critica-di: se stessa; del soggetto rappresentato, e in questo caso del lavoro di G&G.
Ha torto Garner a voler strappare Beaton dalla sfera dell’estetismo camp, per quanto in camp c’è di affine alle ragioni della fotografia. E per quanto in camp c’è anche di frivolo, una frivolezza condivisibile e godibile che rende le fotografie di Beaton belle perché bello è il mondo che fotografa, bella è Audrey Hepburn, belli i costumi disegnati per My Fair Lady, bello Mick Jagger giovanissimo con la moglie Bianca, bella, bellissima, Marlene Dietrich.
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