Il mitografo era colui che rileggeva i miti e ne trascriveva le vicende; e se è sua l’arte del narrare, in tal senso sono in mostra validi narratori. Sedici artisti traghettati dai Caronte del mito: quello allegorico e metafisico di
Giorgio de Chirico e quello rivoluzionario e citazionista di
Gastone Novelli.
Da questi si dipanano le vicende di altrettanti artisti, tra i quali alcuni “mostri sacri” dell’ultimo trentennio. Ad aprire la collettiva c’è un flusso video che raccoglie performance d’autore e corti di otto degli artisti presenti. Una sala è allestita in modo da invitare il visitatore ad assistere comodamente alla proiezione. Il piano terra ospita le diverse opere per ogni differente “spirito d’artista”.
Il mito è palpabile nelle rappresentazioni di
Luigi Ontani, profanatore del sacro, trasgressore della forma “pittura”, di cui pur simula le composizioni, che lascia giocare l’osservatore con le sue fotografie lenticolari; diventa mito folkloristico nella strega di
Myriam Laplante; o eros postmoderno nel trittico di
Dino Pedriali Drago, che rammenta il peccato umano attraverso il voyeurismo di uno sguardo posato sull’intreccio di nudi sensuali.
C’è chi, come
Marilù Eustachio, rilegge i miti dell’arte –
Caravaggio e
Tiepolo -,
laddove i medesimi si erano resi mitografi a loro volta: il soggetto di
Giuditta e Oloferne sopravvive sulla tela di Eustachio a una trasfigurazione dal sapore fauvista.
Il sentiero tracciato da de Chirico è ben sentito nelle opere bronzee di
Giuseppe Gallo e nella classicità sospesa dei dipinti di
Stefano Di Stasio. Più affini allo spirito da bricoleur di tradizioni di Novelli sono
Felice Levini e la stessa Eustachio.
Il mito è presente in tutte le sue forme e rappresentazioni: differenti sono i materiali plasmati per raffigurarlo, gli strumenti adoperati e i riferimenti in gioco. Il mito, greco e romano, biblico e popolare, si mescola di buon grado al mito artistico, quello del genio pittorico, residuo romantico nonostante la carica dell’avanguardia, e non a caso il surrealismo, ultime effige autoriale, impegna la poetica dei più in mostra. Non manca il mito del tempo, degli anni ‘60 di Novelli, come il mito di Roma. Da Roma tutti gli artisti, in un modo o nell’altro, finiranno per passare: il filo conduttore, invero un po’ forzato, è anche questo.
Il piano superiore mette in scena una più curiosa e allettante rassegna di oggetti d’affezione: modelli, maschere, tesori e feticci che gli artisti hanno scelto di svelare. Oggetti da collezione, strumenti di lavoro, acquisti casuali, elementi ricorrenti nei quadri dei singoli proprietari. Alle teche espositive si aggiungono bozzetti e opere di piccolo formato che, al pari di una didascalia figurata, operano come ponte fra l’oggetto, la firma d’autore e la sua arte.
Come affiliazione professionale tra arte e critica, quella tra Fogli e Wiermair rende sfuggente un’effettiva sintonia fra le due istanze. Un’esposizione indubbiamente complessa da realizzare, e che per questo richiede sforzo intellettuale.
Se al mito era contrapposto il logos, in questa sede dovremmo accettarne la necessaria connivenza. Ma, in fondo, diremmo che anche questa è un’odierna conquista.