Riccardo Murelli (Roma, 1975; vive a Todi, Perugia) risiede da sempre in Umbria, dove si è formato in un ambiente di architetti e tra gli studi di artisti del calibro di
Piero Dorazio e
Beverly Pepper. Date tali premesse, dinanzi agli ultimi lavori dello scultore viene da dire che forma e studi si ritrovano sin dal primo sguardo.
L’opera di Murelli, in effetti, tradisce l’appartenenza a una tradizione colta e al contempo artigianale (se i tempi artistici correnti non si mostrassero ormai tanto alieni a determinati ideali, verrebbe da dire genuinamente umanistica), dove concretezza materiale e prassi operativa si coniugano con un costante slancio teorico. Nato come pittore e incisore, Murelli è giunto infatti alla scultura sviluppando con determinazione tale slancio, espresso da principio entro la superficie piana, quindi – attraverso studi sulla proiezione dei punti nello spazio e i rapporti tra gli angoli – nella vigorosa tridimensionalità dell’acciaio (si vedano i parallelepipedi in inox satinato o laccato, realizzati nel corso degli ultimi anni). Assumiamo per conferma delle tesi appena esposte una considerazione pur breve della nuova personale dell’artista.
All’interno del complesso ambiente – si passi la battuta – ad alto voltaggio della galleria romana, l’intervento di Murelli si afferma per la sua potenza compositiva, animata da uno sviluppo della forma estremamente conseguente nel confronto con il dato spaziale: s’intende, insomma, una sorta di rispetto per il limite architettonico, apprezzato nella sua utilità strutturale.
Al di là dell’innegabile consonanza dell’elegante patina bruna dell’acciaio corten impiegato per la scultura con i toni del mattonato circostante, è il disegno filiforme ma insieme potentemente solido dell’opera a imporsi nell’osservazione, suggerendo tanto uno slancio generativo quanto una compressione strutturale dell’insieme (e la memoria storica va qui, quantomeno idealmente, ai classici
Prigioni michelangioleschi, ma basterebbe andare a rivedere le più prossime ricerche sul cubo di un
David Smith per rendersi conto di quanto in scultura temi e svolgimenti si rincorrano, sovranamente indifferenti ai tempi e alle scansioni della critica).
Tensione, come del resto il titolo direttamente suggerisce, è il sentimento più proprio di un simile lavoro, dove gli echi di lezioni dichiaratamente importanti per l’artista – le araldiche geometrizzazioni di
Nino Franchina, l’ossessione giacomettiana del “levare” fino al raggiungimento di una struttura ultima – si affiancano a un personale approfondimento di rapporti formali internamente coerenti. Non si può, dunque, che restare in fiduciosa attesa delle prossime conferme alla rara serietà dell’opera.