Volti evanescenti forati da occhi, narici, bocche, denti -macchie scure e iperdefinite- in un contrasto spietato fra ciò che è fuori e ciò che è dentro, tra il visibile e l’ignorato. È questa la galleria di ritratti che mette in mostra Francesco Mernini (Roma, 1981). Sono barboni o clochard, vagabondi, senza fissa dimora, senza tetto, tramp, homeless. Il diverso che la società rifiuta. Personaggi al limite. “Gli ultimi uomini liberi”, li chiama John Steinbeck in Furore, “randagi scappati dalle nostre case … puzzano di ciò che non hanno, ma anche di tutto ciò che ci manca” per Margaret Mazzantini, in Zorro.
Ogni outsider nasconde dentro sé una storia diversa. Sono creature in fuga che vivono un’esistenza in transito. A volte alcolizzati, drogati o dementi, oppure nomadi per incapacità di fermarsi. Li troviamo negli angoli delle strade ogni giorno, senza più quasi vederli. Dimenticati perché noi li abbiamo dimenticati, costretti a vivere nell’intima prigione del loro disagio, rendendosi all’esterno sempre più invisibili.
Ma i clochard di Mernini bucano lo schermo della nostra indifferenza: sei oli su tela di grande e piccolo formato, che hanno la verità dichiarata della fotografia e la poetica emotiva del linguaggio pittorico. Queste facce diafane invadono lo spazio dei quadri, a tratti cancellate da larghe campiture bianche. Come gli ambienti asettici dove vorremmo esiliarli. Come il loro bisogno di anestetizzarsi dalla completa disfatta. Come l’ipocrisia, la discriminazione e l’anaffettività, che li condanna ad una progressiva perdita della propria identità psicologica e sociale. Semplicemente scompaiono.
In Drop out 9, un uomo dal viso sezionato verticalmente, quasi visto attraverso il finestrino di un treno in corsa, tiene la bocca semiaperta come a riprendere fiato, lo sguardo è già perso nel nulla che lo trascina via. È una tecnica vicina all’iperrealismo, quella di Mernini, che partendo da fotografie, impiega un tratto e una descrizione quasi maniacali nella ricerca del dettaglio, focalizzando il suo “interesse per le piccole cose che portano alla disperazione, quasi all’insania” (Francesca Franco, curatrice della mostra).
L’artista fa uso del bianco e nero, ma non assoluto: inserisce minime quantità di colore addolcendo l’impatto monocromatico senza per questo diluirlo, anzi, una velatura di sentimentalismo feroce, sembra enfatizzare il carattere drammatico del tema trattato. L’angoscia che si coagula dietro le maschere dei soggetti -simili a quelle fittili della tragedia greca-, vuole esplodere in un grido liberatorio. E la stessa donna che in Drop out 2 faticosamente emerge per non affogare nel vuoto, in Drop out 4, strizzati gli occhi a fessura, rovescia il capo all’indietro in un muto urlo che ricalca nel senso, quello di Edvard Munch. Un grido che non può essere avvertito dagli altri: è senza soluzioni consolatorie, ma rappresenta tutto il dolore degli emarginati.
lori adragna
mostra visitata il 20 dicembre 2006
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Brava lori,bel testo,complimenti!