Centro di attività commerciale, nucleo nevralgico amministrativo o politico, punto di convergenza urbanistica, spazio pubblico che può diventare privato, intimo o semplice luogo di ritrovo, la piazza riveste un ruolo centrale nella vita quotidiana della società e dà il titolo alla mostra che
Liliana Moro (Milano, 1961) presenta nello spazio di Edicola Notte.
Proprio a Trastevere, il quartiere capitolino delle pareti crepate, dai numerosi angoli dimenticati e uno dei più frequentati della Capitale, l’artista ricostruisce una città immaginaria, un paesaggio urbano, malinconico e artificiale, a scala ridotta. Dopo le mostre di
Carla Accardi,
Bruna Esposito,
Annie Ratti e
Micol Assaël, in quest’occasione lo spazio viene occupato da tre asettici piedistalli di altezza crescente che si susseguono serpeggiando. Tre piazze di colori metallici e forme sterili, troppo anonime per essere riconosciute e troppo fredde per essere vissute, su cui sono disposti piccoli oggetti d’uso quotidiano – utilizzati frequentemente nei lavori dell’artista milanese – affiancati da noccioline, gusci di pistacchi, semi di avocado e pillole.
Se la cultura postmoderna è spesso caratterizzata da un evidente eclettismo, ribaltata da continue digressioni e connotata da una certa ironia,
il lavoro di Moro propone una visione confusa e caotica, fragile e spaesata, provvisoria e discordante ma, allo stesso tempo, ironica della città e, di conseguenza, dell’uomo che la popola.
Dai materiali facilmente deperibili trapela lo stesso scetticismo che già aveva contraddistinto la filosofia post-strutturalista francese. Non a caso, le piccole architetture di Moro ricreano una favola, una società di simulacri o “simulazionale” – per dirla con Baudrillard – in cui si manifesta un’avveduta ricerca di un costante equilibrio, della stabilità perduta davanti alla volubilità stimolata dal cosiddetto capitalismo maturo.
Una mostra piuttosto asciutta, essenziale, senza intervalli o pause, per cui l’eventualità di un messaggio categorico diventa una moltitudine di possibili riflessioni, in grado di aprire emozioni o considerazioni.
La relazione tra interno ed esterno, tratto distintivo della ricerca dell’artista e insieme metafora del nostro essere nel mondo, viene amplificata dalla particolarità dello spazio espositivo. Una vetrina di fronte alla quale lo spettatore rimane inevitabilmente un semplice testimone, che osserva la riproduzione di un paesaggio universale e atemporale soltanto dall’esterno, senza il permesso di entrare, senza possibilità di reagire o modificare lo stato delle cose. In questo modo, Liliana Moro provoca un’impotenza premeditata, che si contrappone all’usuale apatia che caratterizza la realtà individuale quotidiana.