Quando si è davanti alla grande vetrina della galleria è possibile decidere di restare fuori. La soglia che delimita il confine è simile a quella più sottile tra realtà e finzione, tra uomo e natura, tra vita e morte. Lotta degli opposti, una dicotomia universale su cui Stefano Scheda (Faenza, 1957) sperimenta con i suoi recenti lavori fotografici, per spingere lo spettatore ad una riflessione estrema sui metodi di comprensione dell’essere. Non importa più chi siamo, ma come sentiamo di essere. Il suo lavoro, che mette in comunicazione l’opera d’arte e lo spettatore, crea una dialettica tra il mondo reale e la realtà riflessa attraverso superfici specchianti –impossibile non pensare a Pistoletto– che generano un particolare rapporto tra questi due mondi.
Dopo la nota serie No landing place, nella quale proponeva uomini in bilico disseminati nel paesaggio tribolato dell’inconscio, con Fuoridentro l’artista prosegue la sua ricerca analitica spostando l’attenzione verso la frontiera tra interno ed esterno, un’opposizione non soltanto materiale, ma soprattutto psichica. Così le case con finestre specchianti, come Fuori dentro Venezia o Fuori dentro 1, riflettendo il fuori e allo stesso tempo contenendo il dentro, danno origine ad un vuoto. Lo spettatore rimane al bordo dell’abisso, tra la curiosità di sapere cosa c’è all’interno e la replica temperata dello specchio, provocando un gioco percettivo sottilmente filosofico. Se si vuole comprendere l’essenza ultima delle cose è necessario prima conoscere l’essenza di noi stessi, sembra suggerire l’artista.
Come parametro rilevante del lavoro di Scheda, va citata la speciale attenzione concessa al mare e all’orizzonte come estremità non raggiungibile della visione, linea di delimitazione ambigua e imprecisa.
Come la distinzione tra libertà e prigionia, che l’artista elabora metaforicamente nelle opere sul tema degli uccelli e delle gabbie, nonché in una proiezione video dove un uomo nudo imprigionato passeggia lentamente, in silenzio, sulla sabbia.
L’interesse per questa diatriba degli opposti è portato alle sue estreme conseguenze in Mobile install, scatto fotografico di una performance in cui uno specchio chiude una bara verticale, non distesa, lasciata come elemento immobile sulla spiaggia. A sigillare -o proiettare- la morte. La sabbia scivola e accarezza lo specchio: è una presenza silenziosa, ma violenta. Di fronte alla quale qualsiasi riflessione diventa fragile, relativa, vulnerabile.
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